Sergio Romano, Corriere della Sera 21/3/2012, 21 marzo 2012
La statua di Giordano Bruno a Campo de’ Fiori e la tentazione di Leone XIII di andarsene da Roma
Fu saggio lasciare il papa dentro le mura leonine all’indomani del 20 settembre 1870 che segnò la fine del potere temporale? Perché non esiliarlo? L’Italia avrebbe avuto una storia diversa. Salvatore Surace salvatore1942@yahoo.it
Caro Surace, la partenza del papa da Roma (minacciata dalla Santa Sede o desiderata dall’ala militante dei partiti laici) fu un tema ricorrente della vita politica italiana, soprattutto dopo la fine del potere temporale nel settembre 1870. Ma vi è un particolare episodio che può dare una risposta al suo quesito. Accadde nel giugno 1889 quando il pontefice era Leone XIII e il presidente del Consiglio Francesco Crispi. La scintilla della crisi fu l’inaugurazione di un monumento alla memoria di Giordano Bruno, voluto e finanziato dalle logge massoniche del Regno. La statua sorgeva (e ancora sorge) nella piazza romana di Campo dei Fiori, là dove Bruno era stato bruciato, e il volto incappucciato del frate, rivolto verso la cupola di San Pietro, sfidava con lo sguardo l’autorità papale. Un corteo mosse verso il Tevere con grida di «abbasso il papa» che ricordavano gli incidenti scoppiati quando la bara di Pio IX, durante il trasporto da San Pietro a San Giovanni in Laterano, aveva corso il rischio di finire nel fiume. La reazione della Santa Sede fu molto dura e divenne ancora più aspra quando il presidente del Consiglio a Montecitorio attribuì al Vaticano l’intenzione di «rompere quel fascio delle tre potenze che mantiene la pace del mondo. È un lavoro continuo, una insidia implacabile che ci viene da quel lato; e sventuratamente, talora, ha le lusinghe e, talora, gli aiuti di qualche potenza». Il fascio delle tre potenze era la Triplice Alleanza, costituita qualche anno prima da Austria, Germania e Italia; la potenza complice del papato, agli occhi sospettosi di Crispi, era la Francia. Ma il migliore alleato del papa in quelle circostanze non era la Francia; era la galassia delle associazioni cattoliche francesi, austriache, belghe e spagnole, tutte scandalizzate dall’offesa fatta al Sommo pontefice, tutte convinte che il papa dovesse partire dallo «Stato blasfemo» di cui era «prigioniero». Quando si diffuse la voce che Leone XIII si preparava a lasciare Roma per trasferirsi in Spagna, Crispi capì che l’Italia sarebbe stata accusata di non avere saputo garantire la libertà del pontefice e avrebbe offerto il fianco a una crociata del cattolicesimo militante contro il giovane Stato unitario. Per scongiurare questa prospettiva ebbe un incontro con un cardinale amico, il principe di Hohenlohe, e lo pregò di dire al papa «che guardi di non essere lui la causa d’una guerra e ricordi quanto costò a Pio IX avere ricorso alle baionette straniere». Hohenlohe non poté avere un colloquio con Leone XIII, ma gli scrisse una lettera che ebbe, a quanto pare, l’effetto desiderato. Vi fu anche, tuttavia, chi ritenne che la minaccia della partenza fosse esagerata. Quando un emissario di Crispi ne parlò a Bismarck, il cancelliere disse di non credere a quelle voci e aggiunse che il papa, fuori di Roma, sarebbe stato «uno scià di Persia qualunque in viaggio attraverso l’Europa a spese d’altri».