Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 21/3/2012, 21 marzo 2012
Fatta la riforma gabbato lo santo. La riforma è quella varata dal precedente governo e riguarda gli «obiettivi specifici di apprendimento» nei nostri licei
Fatta la riforma gabbato lo santo. La riforma è quella varata dal precedente governo e riguarda gli «obiettivi specifici di apprendimento» nei nostri licei. E il santo? Dipende dal punto di vista. Per esempio, lette da Napoli, le indicazioni dei nomi da studiare nel secondo biennio appaiono in tutta evidenza discriminanti, ignorano cioè la letteratura meridionale. In Giù al Sud (sottotitolo: Perché i terroni salveranno l’Italia), il saggista Pino Aprile ha dedicato un intero capitolo alla scelta della commissione ministeriale, facendo notare che, a parte Verga e Pirandello, su 17 poeti e scrittori consigliati non c’è un solo nome a sud di Roma. «Integrare le indicazioni didattiche con Quasimodo, Gatto, Scotellaro e di altri intellettuali del nostro Sud» è ciò che rivendica l’appello lanciato dal Centro di documentazione della poesia del Sud. Ne ha parlato di recente il Corriere del Mezzogiorno, facendo sua la campagna di denuncia contro il «complotto nordista». È vero, a leggere i capitoli relativi al «disegno storico della letteratura italiana», e cioè consultando le linee guida suggerite dal ministero, stupiscono alcune assenze, ma va considerato che, salvo eccezioni, non si tratta di indicazioni prescrittive. I nomi dati per sicuri sono pochi. Indiscutibile è il percorso preunitario, ampiamente canonizzato, compresa la tripla centralità di Dante, Leopardi e Manzoni. Unica colpa seria, a quest’altezza cronologica, è quella di ostinarsi a ignorare Pinocchio come capolavoro assoluto. Le cose si complicano nell’ultimo secolo e mezzo, e cioè entrando nei programmi del quinto anno. I fondamenti «non eludibili» del Novecento sono cinque: in poesia, d’Annunzio e Pascoli; in prosa Verga, Pirandello e Svevo. Tutto nella norma, anche se sarebbe stato opportuno un riferimento a Federigo Tozzi, il maestro toscano della moderna narrativa kafkiana. Destinato, a quanto pare, a rimanere ingiustamente emarginato. Nel XX secolo, la triade poetica ormai accertata è Ungaretti-Saba-Montale: con buona pace di Quasimodo, la «poesia onesta» dell’Umberto triestino ha acquisito giustamente una posizione di assoluto rilievo, per non dire che la sua «chiarezza» e la sua cronistoria quotidiana sono molto più commestibili per un giovane che non la retorica ermetica di Quasimodo. Piuttosto, è vistosa l’assenza dei grandi di inizio secolo: dov’è finito Gozzano? E il futurismo? E Palazzeschi? Saltati a pie’ pari. Tra le altre voci poetiche consigliate, è un peccato che siano messi solo tra parentesi i monumenti di Dino Campana e Clemente Rebora. E tra i postmontaliani, i nomi citati sono quasi un riflesso automatico: Luzi, Sereni, Caproni, Zanzotto... (posti tra parentesi e con opportunissimi punti di sospensione a seguire). Riflesso più che automatico, anzi, perché oltre ai «terroni» Gatto e Sinisgalli, manca, tra l’altro, un accenno ai neosperimentali (Sanguineti in testa). Si lamenta il «nordismo» in poesia, ma quel che stupisce di più è l’esclusione del Sud nella narrativa, dove i nomi «significativi» sono i soliti: Gadda, Fenoglio, Calvino, Primo Levi e le integrazioni (tra parentesi) altrettanto ovvie (Pavese, Pasolini, Morante), a parte l’aggiunta di Luigi Meneghello anche qui con un bel seguito di puntini sospensivi. È gravissimo che Moravia non esista, ed è incomprensibile che non esistano Silone, Tomasi di Lampedusa e Carlo Levi. E Vittorini, e Brancati, e Sciascia? Inoltre, dopo aver giustamente indicato quali vie maestre del passato le scritture politiche e scientifiche (Machiavelli e Galileo), perché non dare il peso che meritano a scrittori-saggisti come Croce, Gramsci e Luigi Einaudi? Non basta mettersi l’anima in pace dichiarando: «Raccomandabile infine la lettura di pagine della migliore prosa saggistica, giornalistica e memorialistica». Non si poteva fare, anche qui, qualche nome? Si diceva delle colpe veniali e delle gravi. Grave è l’aver limitato la presenza femminile alla sola Morante, come se Natalia Ginzburg, Lalla Romano, Anna Banti, Anna Maria Ortese (e in poesia almeno Amelia Rosselli e in parte Alda Merini) non esistessero: ciò sia inteso non in ottemperanza a presunte pari opportunità (che in letteratura non contano), ma semplicemente per giustizia. Ultimo peccato capitale: dov’è la letteratura dialettale? Ma come, i programmi di liceo (scritti dal ministero Gelmini) alla fine oscurano la gloriosa tradizione poetica dialettale, quando a giorni alterni i leghisti di governo minacciavano (assurdamente) di inserire il vernacolo tra le materie d’insegnamento. Pazzesco. Non un cenno a Porta né a Belli. E piuttosto che pensare a Quasimodo, perché non lamentare la dimenticanza di Trilussa e Di Giacomo? E a Nord, piuttosto che insegnare a parlare dialetto, perché non insegnare a leggere il triestino Virgilio Giotti, il gradese Biagio Marin, il milanese Delio Tessa, che urlava: «L’è el dì di Mort, alegher!». Anche perché, diciamo la verità: c’è anche un versante comico (da Cecco Angiolieri a Zavattini, Campanile, Benni) nella nostra storia letteraria! Facciamoli ridere, i nostri ragazzi. Alegher. RIPRODUZIONE RISERVATA