Nicoletta Picchio, Il Sole 24 Ore 20/3/2012, 20 marzo 2012
OTTO LAVORATORI SU DIECI ASSUNTI CON I NUOVI CONTRATTI
Non hanno l’articolo 18. Ma non hanno nemmeno quelle garanzie che vengono previste dal contratto a tempo indeterminato. Perché per l’80% vengono assunti con contratti flessibili, ma soprattutto perché aspettano anni prima di avere un posto di lavoro stabile, con situazioni che spesso sfociano nel precariato.
In parte è colpa della crisi. Ma certamente anche di un sistema di regole che rende rigido il mercato del lavoro: quel dualismo, denunciato dalla Banca d’Italia e dell’Europa, per cui chi ha un posto è «fin troppo tutelato» come ha detto il presidente del Consiglio nel suo primo discorso al Senato, mentre altri, soprattutto i giovani, rischiano di esserne «totalmente privi».
Questo paradosso del nostro mercato del lavoro è testimoniato dai numeri: secondo il Rapporto sulla coesione sociale messo a punto dal ministero del Lavoro, Istat e Inps, le nuove assunzioni vengono fatte per la stragrande maggioranza, quasi 8 nuovi contratti su dieci, cioè il 76,3%, con contratti flessibili, da quelli a termine alle collaborazioni. Nel primo semestre del 2011, dice il Rapporto, sono stati attivati oltre 5,325 milioni di rapporti di lavoro dipendente e parasubordinato. Il 67% delle assunzioni è stato fatto con contratti a tempo determinato, l’8,6% con contratti di collaborazione e solo il 19% con contratti a tempo indeterminato. I contratti di apprendistato sono stati appena il 3 per cento.
Sono l’esercito dei poco tutelati, che rischiano di passare anni nell’attesa e nell’incertezza del rinnovo del contratto. Una circostanza aggravata dalla crisi di questi ultimi anni e dalla recessione in atto. L’articolo 18, su cui si sta alzando la tensione nelle fasi finali della trattativa sulla riforma del mercato del lavoro, certo a loro non si applica. Ma non hanno nemmeno le tutele che sono previste dal quel contratto di lavoro a tempo indeterminato che per i nuovi assunti è difficile da ottenere. «È necessario colmare il fossato tra i vantaggi e le garanzie offerti dal ricorso ai contratti a termine e ai contratti a tempo indeterminato, superando i rischi e le incertezze che scoraggiano le imprese a ricorrere a questi ultimi». Parole che Mario Monti ha pronunciato a inizio legislatura e che ora, con la riforma, vuole trasformare in fatti. Ecco quindi la sua determinazione a intervenire sull’articolo 18: meno rigidità in uscita, per superare le resistenze delle imprese ad assumere in modo stabile. E contemporaneamente un intervento deciso su quella flessibilità cattiva, che maschera rapporti di lavoro dipendente e aree di vero precariato. Una riforma su tre pilastri, che accanto alla flessibilità in entrata e in uscita, agisca anche sul sistema degli ammortizzatori sociali. Con un fine ultimo: creare più occupazione, a vantaggio dei giovani, oggi i più penalizzati.
Se si guarda il pregresso, secondo i dati Isfol, il 12,4% dei lavoratori ha un contratto non standard. Ma la fotografia è decisamente sbilanciata per età, coinvolgendo soprattutto i giovani: solo il 54% tra i 18 e i 29 anni ha un contratto a tempo indeterminato, poco meno del 10% sono autonomi, circa l’8% ha un contratto di apprendistato e quasi il 25% rientra negli atipici (tempo determinato, collaborazioni ecc). Peggiora anche il trend della trasformazione dei contratti atipici in contratti a tempo indeterminato: nel biennio 2008-2010 il 37% è passato a un impiego stabile (era il 46% nel biennio 2006-2008), il 43% è rimasto nella stessa condizione mentre il 20% ha perso il lavoro. Nella fascia di età tra i 18 e 19 anni solo il 35,3% è riuscito a trovare un lavoro stabile. Articolo 18 compreso.