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 2012  marzo 19 Lunedì calendario

La Cina frena, il mondo trema - Anche la Cina frena e il mondo si chiede chi altri lo tirerà fuori dai guai

La Cina frena, il mondo trema - Anche la Cina frena e il mondo si chiede chi altri lo tirerà fuori dai guai. Ma davvero, quello di Pechino, è l’annuncio di un’imminente crisi? Secondo i mercati sì. L’economia non si risolve però nella finanza: e nel medio periodo il rallentamento della locomotiva dell’Asia potrebbe rivelarsi al contrario il salvagente dei conti globali. La ragione è semplice: una crescita, per essere tale, deve essere prima di tutto sostenibile. Per questo il trentennale boom della Cina, giunto alla sua prima fase di maturazione, ha compreso di essere a un bivio: non frenare e precipitare, oppure rallentare per restare in pista. La scommessa di Pechino oggi è proprio questa, riformare il proprio modello di sviluppo per fare in modo che una crescita più lenta diventi stabile e costante nel futuro. E’ evidente che se ciò accadrà i benefici si estenderanno all’Occidente, così impaurito dal fatto che la Cina non compensi nell’immediato le sue perdite. Il fatto che i cinesi comincino a tirare il freno per consolidare la propria crescita, favorendo di conseguenza anche la ripresa altrui, non è dunque di per sé un fattore di allarme. Essenziale è piuttosto capire se l’obbiettivo è realmente questo, qualcosa suggerisce che c’è anche dell’altro, ed è il non dichiarato a partire dalle ambizioni internazionali dello yuan e dalla salute effettiva di conti e credito di Pechino a sollevare legittime preoccupazioni. Gli ultimi giorni hanno già sancito un passaggio importante: per la prima volta negli ultimi dieci anni il dibattito economico internazionale si è concentrato sugli effetti di una decrescita cinese, piuttosto che sui livelli di incremento della crescita. A innescare le analisi è stato il premier Wen Jiabao. Introducendo e concludendo la sua ultima Assemblea nazionale del popolo in qualità di capo del governo, ha fissato la previsione di aumento del Pil nazionale 2012 al 7,5%. E’ la soglia più bassa degli ultimi otto anni, inferiore alla zona d’allarme dell’8%, considerata quella minima per scongiurare instabilità politica e nel mercato del lavoro. Inutile nascondere che è stato uno shock: per trent’anni la Cina ha registrato tassi medi di crescita a doppia cifra e nel depresso 2011 si è fermata ad un più 9,2%. Wen Jiabao ha anche confermato che nel quinquennio 20112015 il Pil nazionale dovrebbe aumentare in media del 7%. Unico dato positivo, l’inflazione: nel 2011 è stata del 5,4%, nel luglio scorso ha toccato il record del 6,5%, oggi appare dimezzata e nel 2012 dovrebbe oscillare tra il 3,5 e il 4%. Al «riaggiustamento» del modelloCina si aggiungono segnali negativi provenienti dalle altre principali potenze emergenti dell’Asia. Nell’ultimo trimestre 2011 la crescita dell’India è precipitata al 6,1%, record triennale, mentre quella del Giappone, entrato in recessione, ha perso in un anno il 2,3%. Il problema è capire perché improvvisamente e in blocco anche il grosso del mondo con il segno più, contraddicendo le previsioni, rallenta e sembra seguire il destino del grosso del mondo con il segno meno. A pressare la Cina è un insieme di elementi. Decenni di esplosione della crescita hanno portato al consumo delle sue risorse naturali, a tassi di inquinamento che spaventano la popolazione e ad una domanda di energia che sta facendo impennare il prezzo dei combustibili. Sul piano sociale, uno sviluppo industriale ad alta intensità di lavoro si risolve oggi nell’impennata del costo della manodopera e delle tensioni popolari innescate da una iniqua distribuzione del reddito. Una tendenza è illuminante: anche in Cina è iniziata una massiccia delocalizzazione delle imprese, a partire dalle multinazionali, in fuga verso nazioni ancora più competitive, come Vietnam, Indonesia, Malesia, Cambogia e la stessa già matura Corea del Sud. A tale mix di criticità strutturali interne, si somma la pesantezza dei fattori esterni. Primo fra tutti, la crisi della zona euro e l’incerta ripresa dell’economia Usa. Già nel 2011 le esportazioni cinesi sono crollate, rispecchiando la contrazione dei consumi in Occidente. Da inizio 2012 poi la bilancia commerciale di Pechino è precipitata, registrando il deficit peggiore degli ultimi vent’anni. Lo squilibrio commerciale, dopo anni di solido surplus, è stato di 31,5 miliardi di dollari. Le importazioni sono cresciute del 39,6%, sebbene a gennaio ci sia stato un meno 15,3%, mentre le esportazioni sono aumentate del 18,4%. Le vendite verso l’Europa sono salite però solo del 2,2%, dopo essere calate in gennaio del 3,2%. Questo dato, che ha fatto spaventare le Borse, merita di essere analizzato. Il taglio netto dei consumi negli Stati Uniti e nella Ue, e dunque delle esportazioni della Cina, moltiplica le difficoltà. Resta però il fatto che le importazioni di rame, petrolio, gas e acciaio da parte della Cina sono oggi a livello record. Ciò che significa che i consumi interni di merci stanno realmente colmando la domanda esterna di prodotti: ma soprattutto che Pechino trova sbocchi alternativi, come la Russia (scambi in crescita del 31,9%), l’America del Sud e l’Africa. Emerge così in misura evidente che l’allarme per il cosiddetto «rallentamento della Cina» si traduce in realtà nella preoccupazione per un «riorientamento della Cina», che potrebbe in questo caso preludere ad un non contingente «riaggiustamento della Cina» verso il basso. I mercati finanziari stanno cioè scontando due quesiti essenziali. Si chiedono se quella che nel 2011 è diventata la seconda economia del mondo riuscirà a diventare davvero una superpotenza sviluppata, consumando il sorpasso sugli Usa entro dieci anni. E si domandano se tale piano coinvolgerà e sosterrà l’Occidente, oppure se infine lo escluderà fino ad affossarlo. Sono questi dubbi non dichiarati che alimentano oggi l’allarmefrenata. Ad avallarli, numerosi segnali. Wen Jiabao ha concluso la riunione dell’Assemblea nazionale del popolo dicendo che «la crisi dell’Europa si sta allargando». Nelle stesse ore il governo del Giappone ha annunciato che Pechino ha autorizzato l’acquisto di 65 miliardi di yuan (10,3 miliardi di dollari) del proprio debito pubblico da parte di Tokyo, fatto senza precedenti nella storia. A fine marzo la China Development Bank firmerà un accordo con India, Brasile, Russia e Sudafrica (il cosidetto Brics) che renderà disponibili prestiti in yuan, o nelle rispettive valute. La Cina è cioè decisa a ridimensionare il ruolo di dollaro ed euro quali valute di riserva, rafforzando quello dello yuan e diversificando le proprie riserve a monete finora marginali. Pechino, impegnata a trasformarsi da «fabbrica per conto terzi» a «centro commerciale per conto proprio», ha infatti una convinzione: che nonostante il recente rafforzamento, il dollaro nel lungo termine si indebolirà e che l’euro attuale sia ormai ossidato. Il tempo dei rinvii appare dunque scaduto e la Cina, per salvare se stessa, corre ai ripari: rallenta la crescita, frena l’inflazione, si appresta ad allentare l’obbligo del 20% delle riserve bancarie sui prestiti, calmiera i prezzi degli immobili, rilancia i consumi, va allo scontro sulle «terre rare» e sulle tasse aeree, rafforza lo yuan e vende i propri debiti all’estero. L’obiettivo è chiaro: rappresentava il 5% dell’economia Usa, oggi vale il 50% e vuole colmare in fretta il divario residuo. Rallentare è la strategia giusta? Secondo gli economisti, in dissenso rispetto agli analisti finanziari, la risposta è no se Pechino si limiterà agli annunci e baderà solo al rafforzamento del potere interno ed esterno. La risposta invece è sì se la Cina passerà dalle parole ai fatti: e soprattutto se saprà accompagnare le riforme economiche con quelle politiche, aprendo a diritti e libertà. Nel momento del congedo, lo ha sottolineato lo stesso Wen Jiabao: «Siamo giunti ha detto ad una svolta cruciale. Senza riforme politiche non sono possibili riforme economiche. Senza queste, la crescita non è più sostenibile: ma senza crescita, la nazione rischia una nuova Rivoluzione Culturale». Forse è questa tentazione di tornare al passato ciò che oggi più spaventa il pianeta. Ma se Pechino resisterà, anche un’apparente frenata potrà accelerare la ripresa.