Massimo Gaggi, Corriere della Sera 19/03/2012, 19 marzo 2012
DUE COMPAGNI DI STANZA, UNA WEBCAM. UCCIDERSI A 18 ANNI PER UNA «BRAVATA» —
«Adesso vediamo se avrà più rispetto per i suoi nuovi compagni di camera in prigione», è lo spietato commento dell’arciconservatore New York Post, per una volta d’accordo coi movimenti per i diritti dei gay nell’ostentare soddisfazione per la condanna di Dharun Ravi: lo studente indiano della Rutgers University, un ateneo del New Jersey, che un anno e mezzo fa riprese con la «webcam» del suo computer due incontri omosessuali dello studente diciottenne col quale divideva la stanza — l’italoamericano Tyler Clementi — e poi mise le immagini su Internet. Tre giorni dopo il secondo episodio, Tyler si suicidò lanciandosi nel fiume Hudson dal Washington Bridge, il gigantesco ponte che collega il New Jersey a Manhattan.
Nell’ottobre del 2010 il caso creò grande scalpore: tutti condannarono Dharun per il suo atto di «cyberbullismo». Il ragazzo, nato in India, ma trasferitosi con la famiglia negli Stati Uniti quando aveva due anni, venne subito incriminato. Ma non era giuridicamente possibile accusarlo della morte di Tyler. Oltre tutto il ragazzo, una persona sensibilissima (era anche un virtuoso del violino) con una personalità molto vulnerabile, era già in crisi: aveva confessato la sua omosessualità ai genitori e, mentre il padre aveva mostrato di comprendere, la madre aveva reagito malissimo.
Dharun, che non solo aveva acceso la telecamera ma aveva invitato con più messaggi messi su Twitter gli altri compagni a una specie di raccapricciante «video party», venne incriminato con ben 15 capi di imputazione sulla base della legge che punisce gli «hate crimes», i crimini di odio basati su vari tipi di discriminazione: razziale, religiosa ed etnica ma anche quella relativa alle tendenze sessuali. Quest’ultima fattispecie è prevista solo in 30 dei 45 Stati Usa che puniscono l’«hate crime». Il New Jersey è fra questi.
Ma quando, due giorni fa, la giuria popolare di New Brunswick ha ritenuto il ragazzo indiano (oggi ventenne) colpevole di tutti e 15 i capi d’imputazione spingendolo verso una condanna che, dicono gli esperti, potrebbe superare i 10 anni di detenzione (la pena verrà stabilita a maggio), sono stati in molti a giudicare inaccettabile una sentenza così pesante. «Dharun ha commesso un atto grave e inqualificabile, si è dimostrato stupido e immaturo: va condannato ai servizi sociali ma non lo si può mandare a marcire in una cella insieme a stupratori e assassini» ha scritto in un editoriale lo Star Ledger, il quotidiano più seguito del New Jersey.
Per i magistrati dell’accusa, invece, la condanna è esemplare e funzionerà per tutti da «monito contro gli atti di bullismo e intolleranza», anche quando vengono commessi dietro un paravento elettronico. E le associazioni che tutelano i diritti degli omosessuali si sono dette d’accordo con la sentenza, pur evitando di ostentare la loro soddisfazione.
Ma nel dibattito che infuria da due giorni le manifestazioni che prevalgono sono quelle di costernazione: guardando il ragazzo e il padre in giacca e cravatta in tribunale e pensando alla vita nei dormitori universitari dove scherzi pesanti e prepotenze non sono poi così rari, molti genitori della buona borghesia newyorchese hanno pensato che in quel tribunale avrebbe potuto esserci un loro figlio. Anche perché Dharun non è un mostro che ha agito a freddo: aveva da tempo rapporti tesi col suo compagno di stanza. Omofobo? Non è provato: i due si detestavano, si davano reciprocamente del «poveraccio», Tyler irrideva Ravi per le sue origini indiane, lui lo ripagava con la stessa moneta. Ma probabilmente, dicono i compagni, avrebbe sfogato la sua rabbia mettendo in rete le immagini, anche se lo avesse sorpreso a letto con una grassona.
L’Aclu, la lega per i diritti civili, si rende conto che si è aperto un caso molto dedicato e, pur appoggiando la sentenza, avverte che l’«hate crime», una legislazione molto controversa che persegue crimini difficili da identificare e provare, va maneggiato con grande prudenza. Ma è soprattutto l’uso del mezzo elettronico per commettere il crimine a far discutere: «Dopo questo caso niente sarà più come prima», commenta Usa Today. Si deve diffondere la consapevolezza che basta un «click» per commettere anche un reato dalle gravi conseguenze penali. «Dobbiamo essere consapevoli che aprire un conto su Twitter è come trasmettere per radio o andare in tv», avverte John Verdi, direttore dell’Electronic Public Information Center.
Massimo Gaggi