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 2012  marzo 19 Lunedì calendario

VERONA

Verona è considerata la città più di destra d’Italia: lo scenario dei delitti di Ludwig. La città più nichilista: la culla di Pietro Maso, che uccide i genitori per l’eredità e poi va in discoteca. La città più razzista: i tifosi dell’Hellas multati di continuo per i cori su neri e meridionali (cui i napoletani risposero con uno striscione contro l’incolpevole Giulietta). Ora è considerata la città più leghista, grazie al sindaco Tosi, quello che arrivò al consiglio comunale con una tigre al guinzaglio, e disse che non avrebbe mai messo il ritratto di Napolitano in ufficio.
In realtà, Verona non è nulla di tutto questo. È semplicemente una città un po’ complessata. Certo, l’estrema destra esiste, ma non è più rumorosa che altrove. Certo, Tosi con ogni probabilità sarà rieletto sindaco, ma non in quanto leghista, anzi per il motivo opposto: è diventato il sindaco di gran parte dei veronesi, non a caso ha sfiorato la rottura con Bossi. Il complesso di Verona è non essere considerata per quel che vale, non contare per quel che pesa.
A molti veronesi non importa più di tanto. «Non c’è mondo per me al di là delle mura di Verona, c’è solo purgatorio, tortura, l’inferno stesso»: non è solo un verso di Shakespeare, scritto sui portoni di piazza Bra e tatuato sui corpi di molti tifosi dell’Hellas; è una mentalità diffusa. Però alla città un po’ pesa essere rappresentata in modo così negativo nel resto del Paese. Tanto più che all’estero Verona è una delle città più famose d’Italia, all’altezza di Roma, Venezia, Firenze; infatti è la quarta per numero di turisti, tre milioni l’anno. Ricca anche in tempi di crisi, da sempre porta d’Italia per il mondo tedesco, Verona si sente sottorappresentata, avverte di non avere quel peso politico e culturale che la sua forza le consentirebbe. Questo vale un po’ per tutto il Nord-Est, ma a maggior ragione per Verona, che del Nord-Est è la città più popolosa (264 mila abitanti il Comune, quasi un milione la Provincia). Gente che si sente a volte presa in giro dal potere romano. Se c’è un veneto in un film, per dire, è un mona, una macchietta. E al governo non c’è un veronese da vent’anni, dai tempi di Gianni Fontana ministro dell’Agricoltura e delle Foreste. Ci sarebbe anche Aldo Brancher, nominato ministro nell’estate 2010; ma dopo tre giorni il Quirinale lo rimandò indietro.
Nella tana degli ultrà
«A Pescara ci hanno gettato addosso topi e pesci morti!». «A Napoli ci hanno tirato conigli vivi, e poi molotov e bombe carta!». «A Salerno ci hanno pisciato addosso!». E in che modo, scusate? «Ingegnoso: bottiglie aperte e fatte scivolare sopra la rete che copriva il nostro settore. A Foggia invece hanno unto di grasso la ringhiera su cui dovevamo appoggiarci. Sempre a Pescara l’hanno cosparsa di colla: si sono impiastricciati anche i bambini. L’avessimo fatto noi a Verona, titoli in prima pagina. L’hanno fatto al Sud, e neanche una riga».
Incontrare alcuni tra i capi della tifoseria dell’Hellas è complicato. Detestano i giornalisti, dicono che li denigrano da sempre, che ingigantiscono i torti fatti e nascondono quelli subìti dagli ultrà. Anzi, loro rifiutano di farsi chiamare così: sono i «Butei», i Ragazzi. Ci ricevono nello scantinato di un’osteria fuori porta, trasformato in museo del tifo, con cimeli e maglie dal 1903 in poi: Zigoni, Dirceu, Elkjaer con lo scudetto dell’85, l’unico anno in cui ci fu il sorteggio integrale degli arbitri, prontamente abolito. Il leader storico è Alberto Lomastro, un muro di tatuaggi, capelli lunghi ormai brizzolati: se il sindaco Tosi continua ad andare in curva, lui adesso va in tribuna. Fu anche arrestato e poi scagionato, quando allo stadio impiccarono un manichino raffigurante un nero, tipo Alabama dopo la guerra civile. «Non siamo dei santi. Ci mettono in croce per qualche ululato, che si sente in tutte le curve. Ma i cattivi siamo sempre e soltanto noi». L’ululato è razzismo. «Non siamo razzisti, ma goliardi. Quando i napoletani vennero qui con lo striscione "Giulietta è ’na zoccola", non ci siamo offesi: le battute si danno e si prendono. Noi a Napoli non potevamo neppure andare». Fino a quando, nell’88, si misero in viaggio verso Sud in settanta, su un pullman e due furgoni. «Quella volta ci accolsero bene, riconobbero il nostro coraggio». È durata poco. «A Napoli vendono le sciarpe con la scritta "Io odio Verona". E nessuno fiata. Lo facessimo noi...».
Tosi minimizza: «L’Hellas ha più di diecimila abbonati. Se qualcuno si comporta male, non è giusto criminalizzare tutti. Del Chievo non importa a nessuno, almeno non a me. Chievo è un quartiere. L’Hellas è la città». Resta il fatto che la società quest’anno ha già pagato multe per oltre 146 mila euro. In settimana ne è arrivata un’altra da 40 mila, per i cori contro Oduamadi e Ogbonna, calciatori del Torino peraltro battuto 4 a 1. Già tre volte l’Hellas ha dovuto giocare a porte chiuse, a causa dei cori razzisti contro Coly del Perugia, Asamoah del Modena, Koné della Pro Sesto. «Ma a noi ci multano appena respiriamo! — lamenta Lomastro —. Siamo stati puniti pure per gli insulti contro Remondina, il nostro allenatore, caso unico nella storia del calcio. Poi al suo posto è arrivato Mandorlini. Una volta, per svelenire l’atmosfera, ha cantato "Ti amo terrone", una canzone degli Skiantos. Hanno multato pure lui. Ma con quella canzone gli Skiantos hanno vinto il premio Tenco, una cosa di sinistra!». Alla parola «sinistra» pare che l’antro dei Butei debba crollare da un momento all’altro. «Ma no. Tra noi c’è di tutto, da Forza Nuova a Rifondazione. Le Brigate gialloblù nei primi Anni 70 erano di sinistra. Abbiamo fatto alleanze con curve "rosse" come quella della Samp. Siamo persino amici con i tifosi del Lecce...».
Dal sindaco Tosi
Non soltanto nell’ufficio è bene esposto il ritratto di Napolitano, tra il tricolore e il berrettino dell’Hellas. Flavio Tosi ha pure invitato il presidente a celebrare i 150 anni, nel giugno 2011, e l’avrebbe voluto di nuovo sabato scorso, per il 17 marzo. Mostra la lettera con la risposta: «Caro sindaco, la ringrazio, ma ho già un impegno al Quirinale». Cos’è successo, Tosi? Ha cambiato idea? «Sono cambiato io. Fare il sindaco ti fa maturare. Capita a tutti, in gioventù, di dire sciocchezze. La storia del ritratto era una sciocchezza».
In questi anni Tosi ha compiuto due operazioni politiche. Ha traghettato la destra nell’orbita della Lega: non a caso ora il Pdl si divide, una parte con lui, l’altra con l’ex presidente della Fiera Luigi Castelletti (preceduto nei sondaggi anche dall’uomo della sinistra, l’ambientalista Michele Bertucco). E ha trasformato la Lega stessa: sempre meno partito ideologico legato al mito della secessione, al carisma di Bossi e al baricentro varesotto, sempre più sindacato del territorio, capace di incarnare le varie anime del Veneto. Per questo la polemica sulla lista civica trascende i destini di Tosi e della Lega; riguarda la città. Tosi non è un progressista illuminato, è un familista che ha fatto nominare la sorella Barbara capogruppo in consiglio comunale e promuovere la moglie in Regione (lei l’ha ripagato dicendo che voterà Pdl, lui assicura che la fronda familiare è rientrata). Non rinuncia alle bizzarrie, come il tuffo di Capodanno nel lago di Garda, tipo Mao nello Yangtze. Però è uno che vive in mezzo alla gente, lo incontri in pizzeria sino a tardi come il Bossi degli anni ruggenti, e per gli interessi dei veronesi rompe le scatole a tutti, comprese le multinazionali come Ikea: volete aprire uno stabilimento in periferia? Bene, però dovete assumere i licenziati della Compometal. All’Arena ha mandato come sovrintendente un perito agrario, che però ha risanato i conti. E quando un ragazzo, Nicola Tommasoli, fu massacrato da cinque estremisti neri per una sigaretta, Tosi espresse l’indignazione dell’intera comunità. Verona ha trovato un politico che non sarà estraneo ai complessi della città, ma proprio per questo la rappresenta. Per Tosi rinunciare alla propria lista avrebbe significato mettere la Lega davanti alla città; e la città non gliel’avrebbe perdonato.
Bossi aveva minacciato più volte di metterlo fuori per questo. Non erano parole al vento. Bossi ha sempre governato il partito così, per espulsioni. A maggior ragione in Veneto, terra per lui straniera. I capi della Liga sono sempre stati cacciati, da Rocchetta a Comencini. Il sindaco per ora l’ha scampata. Alla fine l’accordo è stato trovato, con un escamotage: non una, ma tante liste Tosi. Quella dei pensionati, dei cattolici, dei fuoriusciti pdl, magari pure dei Butei. Per ora Bossi ha deciso di non rompere con Maroni, che Tosi definisce «meraviglioso». Ma, se a giugno Tosi vincerà il congresso veneto contro il segretario Giampaolo Gobbo e i veronesi del cerchio magico, Federico Bricolo e Francesca Martini, il Senatur potrebbe ancora scegliere la guerra, per lasciare in eredità almeno un pezzo di Lega al figlio Renzo. In tal caso, può succedere di tutto, altro che la tigre in Comune. Che poi sarà stata un cucciolo narcotizzato. «Manco per sogno! D’accordo, fu un’altra sciocchezza. Era per fare pubblicità al circo padano. Una bella bestia, però, di nove mesi. Quando ho fatto per accarezzarla a momenti mi stacca il braccio!».
Dal «Cuccia di Verona»
Sul portone c’è il cartello turistico: «Casa di Romeo». Tutti sanno che Giulietta e Romeo non sono mai esistiti, eppure a milioni vanno a visitare la casa, la tomba e il balcone di Giulietta, che è in realtà un falso dichiarato, un sarcofago medievale attaccato al muro. Spiega il grande Paolo Poli, in questi giorni in scena al teatro Nuovo, che al mito di Giulietta e Romeo tutti sentono il bisogno di credere, non solo i venditori di grembiuli e altre carabattole per turisti appostati nei punti strategici. Nel cortile della casa di Giulietta non c’è più spazio per un solo cuoricino, una sola scritta. Quando il portone geme sotto il peso dei lucchetti, vengono tagliati e riposti in apposite ceste, presto sostituiti da altri segni di amori più recenti.
Nella «casa di Romeo» abita invece l’uomo più potente della città. Paolo Biasi, presidente della Fondazione Cariverona, tra i primi azionisti di Unicredit, dispensatore di fondi per chiese, mostre, associazioni. Detto il Cuccia di Verona per la sua riservatezza: mai un’intervista; né lo è quella di oggi. Semmai, una conversazione informale. Dice Biasi che lui non avverte alcun complesso, e non cambierebbe Verona con nessun posto al mondo. La città del resto ha un’antica tradizione autarchica e castrense. Ai tempi dei Cesari aveva seimila abitanti e un’Arena da 40 mila posti, costruita per gli eserciti di passaggio: «Verona era l’autogrill degli antichi romani» sorride Paolo Poli. Gli austriaci ne fecero fortezza e caserma. Da sempre Verona basta a se stessa. Ora però le cose sono cambiate. Non c’è più la banca-bottega, ma una banca che travalica le mura, mette radici a Milano, si espande all’estero e quindi può essere più utile all’impresa locale. Biasi ha buone parole anche per i rivali del Banco popolare e per gli industriali. Certo, l’aeroporto perde milioni l’anno a causa dell’alleanza sbagliata con Montichiari, ma ora si cerca un nuovo partner. La crisi picchia duro sulla manifattura, ma risparmia l’agroalimentare. L’export è inferiore a quello delle altre province venete (pesa il fatto che le auto Volkswagen importate in Italia passano da qui), ma è più legato alla terra, alle vigne, agli allevamenti. Se l’industria della carta è ridimensionata, la Index è leader europeo delle membrane impermeabilizzanti; se i francesi della Hoover licenziano, i turchi del gruppo Ziylan vorrebbero comprare la Lumberjack. Calzedonia e Intimissimi sono di qui. Le seconde generazioni non si riposano ma diversificano: Andrea Bolla con la Vivigas, Andrea Riello con le macchine utensili; Michele Bauli compra una fabbrica di brioches in India, Gianluca Rana produce sughi a Chicago. I Rana rappresentano il capovolgimento di un’abitudine italiana: il padre, Giovanni, ormai attore degli spot di famiglia, si diverte; Gianluca, il figlio, lavora.
Questo non significa che Verona sia così soddisfatta. E non solo perché un veronese su 20 è disoccupato e uno su 10 è povero. Ora che si affaccia sul mondo, la città fatica a definirsi, a capire chi è. I vicentini la considerano poco veneta, i mantovani non la sentono lombarda. L’antica dominatrice Venezia è poco amata, Milano è distante. Verona non si è mai governata da sola, e porta memorie di eserciti soverchiatori, in particolare con le donne: Carlotta Aschieri uccisa a 25 anni, incinta, dalle baionette degli austriaci in ritirata; Isolina Canuti, costretta da un ufficiale sabaudo ad abortire sul tavolaccio di un’osteria, decapitata per farla tacere, gettata nell’Adige, che qui non è un fiume placido come i tanti che attraversano le città italiane, è impetuoso e gelido come un torrente. È stato uno scrittore veronese, Stefano Lorenzetto, a raccontare lo spaesamento e la frustrazione nel pamphlet Cuor di veneto. Anatomia di un popolo che fu nazione. Chi collega Arnoldo Mondadori, Walter Chiari, Emilio Salgari, Cesare Lombroso a Verona? Eppure sono nati qui, per poi andarsene. L’erede di Lombroso oggi è Vittorino Andreoli, che qui considerano il «medico dei mati», mentre l’artista del fumetto Milo Manara è visto come un tipo curioso che disegna strane storie. Più che con la testa, questa è una città che si capisce col cuore: da qui sono partiti san Giovanni Calabria e San Daniele Comboni fondatore dei comboniani; la rete di associazioni benefiche è tra le più fitte d’Italia, ogni sera la Ronda della Carità distribuisce pasti caldi, il gruppo del Samaritano ha 250 letti per i clochard; l’oste del Calmiere, l’osteria del bollito e delle tagliatelle coi fegatini davanti a San Zeno, ha fondato un’associazione per combattere le malattie infantili del sangue, financo i Butei dell’Hellas finanziano la ricerca sulla sindrome di Louis-Bar, male crudele che uccide nella seconda decade di vita.
La città dei teatri si riempie d’estate, per il festival shakespeariano. Lo Stabile diretto da Paolo Valerio organizza versioni itineranti di Romeo e Giulietta nelle piazze, ora ha prodotto un «Sogno di una notte di mezza estate» con gli attori di Zelig, regia di Gioele Dix. Dice Paolo Poli che questa forse è l’ultima volta che recita a Verona; ma dev’essere una sua forma di scaramanzia. E in ogni caso aggiunge di essere sicuro, dopo sessant’anni di palcoscenico, che da qualche parte a Verona — forse non distante dall’ansa dell’Adige, dal Ponte Pietra, dai cipressi del teatro romano — Giulietta e Romeo esistono davvero, hanno superato gli odi e le rivalità, i pregiudizi e i complessi; e sono finalmente liberi di amarsi, senza che nessuno li veda.
Aldo Cazzullo