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 2012  marzo 19 Lunedì calendario

Il soldato italiano in trincea fermo, altruista e silenzioso - Si chiama Robert Bales il sergente (nella foto) considera­to l’unico responsabile della strage compiuta la settima­na scorsa a Kandahar

Il soldato italiano in trincea fermo, altruista e silenzioso - Si chiama Robert Bales il sergente (nella foto) considera­to l’unico responsabile della strage compiuta la settima­na scorsa a Kandahar. Le autorità militari americane han­no fornito l’identità del militare dopo aver completato il suo trasferimento nella prigione militare di Fort Lea­venworth, in Kansas. Ora il tiratore scelto, che prima di es­sere inviato in Afghanistan aveva già compiuto tre missio­ni in Iraq dove era rimasto ferito, sarà incriminato dalla magistratura militare per aver ucciso 16 civili afghani, tra i quali nove bambini, e di aver tentato di dare fuoco ai loro corpi prima di reintrare nella sua base e consegnarsi ai suoi superiori. Il ministro della Difesa, Leon Panetta, ha detto che Bales rischia la pena di morte. Una follia che la guerra può scatenare ma non giustificare. I nostri soldati in prima linea per esempio,hanno invece fattodell’uma­nità la loro arma principale. E noi vi raccontiamo come. La paura, l’orrore, la solitu­dine sconfinata di un pae­se spietat­o e inospitale co­me solo l’Afghanistan in guerra sa essere. C’è anche questo dietro la follia assassina di Robert Bates il 28enne sergente dell’esercito americano accusato di aver mas­sacrato 16 civili afghani. Eppure in quel limbo sospeso fra guerra, orrore e follia vivono anche i 4mi­la soldati italiani chiamati, ogni sei mesi, a prestar servizio in Af­ghanistan. «Non puoi mai distrarti. Le trap­pole esplosive sono ovunque e sono sem­pre più sofisticate» spiegava la scorsa esta­te il 31enne capitano Emanuele Malberti co­mandante della com­pagnia Giaguari dell’8 reggimento paracadu­tisti dispiegata a Bakwa. Pochi giorni prima il caporal mag­giore Roberto Marchi­ni, uno dei suoi uomi­ni migliori, era saltato su una trappola esplo­siva. Eppure il capita­no e la compagnia «Giaguari» continuavano le mis­sioni di sostegno alla popolazio­ne­e le distribuzioni di aiuti nei vil­laggi da cui era arrivata la trappo­la mortale. «Da quei villaggi ci guardano, ci studiano. Fanno se­gnali di fumo, mandano staffette in moto, seguono i nostri movi­menti. Per restare vivo - spiegava il capitano- devi sempre immagi­nare le loro due mosse successi­ve. E in ogni caso prima o poi ti fre­gano lo stesso». Il capitano Mal­berti e i suoi uomini sono paraca­dutisti della Brigata Folgore, una delle unità meglio addestrate del­­le nostre forze armate, ma non so­no uomini eccezionali. Non sono soldati d’elite, uomi­ni dei corpi speciali selezionati per le missioni più estreme e tem­prati alle prove più dure. Come il 95 per cento dei militari che ope­ran­o in Afghanistan sono sempli­cemente soldati professionisti, ra­gazzi che terminati gli studi han­no scelto la professione del milita­re. Da quando è scomparsa la leva obbligatoria l’Italia meridionale è diventata la grande levatrice del­le nostre forze armate con una percentuale di reclutamenti in­torno al 65 per cento. Il nord è pre­cipitato all’8 per cento lasciando a Sardegna, Puglia, Campania e Sicilia il compito di fornire persi­no gli effettivi delle truppe alpine. Nei paracadutisti non è diverso. All’interno della compagnia Gia­guari il capitano Malberti s’è gua­dagnato il soprannome di «longo­bardo » proprio per quelle origini brianzole diventate una rarità. Lui in cambio chiama «Regno del­le due Sicilie» il gruppetto di suoi uomini originari di Sicilia, Puglie e Campania. Dietro la comune origine meri­dio­nale di tanti militari c’è sicura­mente una scelta iniziale dettata dalla ricerca del posto fisso e dello stipendio sicuro. A quello stipen­dio s’aggiungono 144 euro d’in­dennità al giorno per la missione in Afghanistan e 177 euro in più per quella in Libano, dove gli ex­tra sono pagati dalle Nazioni Uni­te. Indennità di missione e paga base consentono in sei mesi al­l’estero d’accantonare cifre im­portanti per un ventenne. Cifre in­dispensabili per pagare la prima automobile, versare la prima rata del mutuo o saldare i costi del ma­trimonio. Ma non certo a giustifi­care il rischio e la fatiche del te­atro afghano. E non bastano certo a spiega­re le 49 vite sa­crificate in una missione di­ventata la più sanguinosa dalla fine della seconda guer­ra mondiale. Per capirlo ba­sta scendere nel catino ro­vente di Bakwa. Lì d’estate il termometro balla intor­no ai 52 gradi e ogni passo può es­sere fatale. Lì tra i sassi e la sabbia arroventati dal sole dello scorso agosto, il caporal maggiore Paolo di Maio e Mario Porto spadellava­no il metal detector, ne ascoltava­no gli echi nell’auricolare mentre la colonna attendeva incolonna­ta a distanza. «Il terreno è zeppo di metallo, non distinguo gli im­pulsi » grida Mario mentre Paolo indica le zone ancora da controlla­re. Sembrano due ballerini sul filo del rasoio, in bilico tra incoscien­za e spirito di sacrificio. Eppure nessuno fiata, nessuno si lamen­ta. Neppure il primo caporal mag­giore Marianna di Carlo. É l’unica «giaguara» della compagnia. É una 25enne bionda d’assalto,con il seno prigioniero del giubbotto antiproiettile e i muscoli cresciuti sotto lo zaino. Arriva dalla Basili­cata, sognava l’Afghanistan e la di­visa da quando aveva 15 anni, ma non si sarebbe mai immaginata d’assistere impotente alla morte di un collega e di un amico. Il 12 luglio Marianna è tre mez­zi dietro a quello di Roberto, l’el­metto calato, il giubbotto troppo stretto, il sole che le brucia la te­sta. La prima trappola esplosiva non è l’unica.Ma Roberto ha l’oc­chio fino, conosce il proprio lavo­ro. Circoscrive la prima. Lavora sulla seconda. Segnala qual­cos’altro di sospetto. Poi quel pas­so, quella vampata, il tremore del­la terra nelle budella, il boato nel­­le orecchie, secondi di silenzio fra­stornato, mentre il mondo gira e tu sei immobile, paralizzato, diso­rientato. E Roberto non c’è più. «Sono lì a poche decine di metri, vedo tutto, capisco tutto e conti­nuo a vederlo. Un’immagine del genere- spiega Marianna- non la puoi cancellare, non la puoi butta­re nel cestino. Te la porti dietro, ti resta dentro. Per sempre. E minac­cia le tue certezze. Non è facile ve­nirne fuori. Lo puoi fare solo se la squadra resta unita, se tutti conti­nuano a starti accanto». Dopo scosse come quelle spet­ta al comandante tener in piedi i propri uomini. «Devi restar vici­no a tutti, aiutarli a fare gruppo. Anche il soldato meglio addestra­to - spiegava Emanuele Malberti – è sempre un essere umano. Se lo lasci solo pensa, riflette, s’ango­scia si ritrova prigioniero dei brut­ti pensieri. Se qualcuno ti sta vici­no come sappiamo fare noi italia­ni, come sanno fare soprattutto i miei soldati del Regno delle due Sicilie, allora dubbi e paure si tra­sforma in compagni di viaggio. Ti aiutano a tenere gli occhi aperti, a vedere i rischi, a non dare nulla per scontato».