GUIDO RUOTOLO, La Stampa 19/3/2012, 19 marzo 2012
Inquinamento o disoccupazione Taranto condannata a morire - Il destino è appeso a un filo. Solo un miracolo, oggi, riuscirebbe a far scommettere Taranto sul futuro
Inquinamento o disoccupazione Taranto condannata a morire - Il destino è appeso a un filo. Solo un miracolo, oggi, riuscirebbe a far scommettere Taranto sul futuro. Sul futuro dell’Ilva e dunque della città. Se solo si potessero spostare le lancette del tempo per arrivare al 30 marzo sapremmo come andrà a finire. Perché molto dipenderà da quel giorno e quell’udienza, quando si discuterà la perizia medicoepidemiologica che i periti del gip hanno depositato e che non lascia spazio alla speranza. Solo un miracolo farà resuscitare la grande fabbrica. Che illusione voler barattare la morte con la fabbrica, con il lavoro di 14.000 cristiani. Perché nella capitale della Magna Grecia si sta consumando una tragedia. Senza l’Ilva, Taranto è una città morta ma quella fabbrica, se dovesse continuare a vivere, produrrebbe (anche) morte. Bisognerebbe leggere l’audizione del procuratore Franco Sebastio alla commissione bicamerale sui rifiuti per capire perché la macchina della giustizia a questo punto non può arrestarsi. Da tre anni e passa infatti si indaga per disastro ambientale (sulla base delle perizie, quasi certamente) doloso, per violazione delle norme a tutela dei lavoratori, per avvelenamento di sostanze destinate ad alimentazione. Ma cosa dovrebbe succedere di più di quello che è già accaduto? In corso vi sono due processi per omicidio. Quindici, venti lavoratori Ilva per processo. Uccisi per asbestosi, cancro ai polmoni provocato dalla fabbrica. I primi processi, l’allora pretore Franco Sebastio li avviò trent’anni fa. Per diffusione delle polveri dei parchi sulla città; un paio per inquinamento ambientale. E due processi sono in corso per la morte di due gruppi di venti lavoratori dell’Ilva. Mille pecore abbattute perché l’Arpa, l’agenzia regionale per la protezione dell’ambiente, ha trovato tracce altissime di diossina nelle carni ma anche nei formaggi. L’estate scorsa, poi, hanno dovuto spostare le coltivazioni dell’«oro» tarantino, le cozze pelose, da Mar Piccolo a Mar Grande per via dell’inquinamento. Cos’altro dovreBbe succedere? Racconta il procuratore Sebastio alla commissione parlamentare sui rifiuti: «Stiamo procedendo anche per danneggiamento aggravato di beni pubblici, quali il cimitero. La sua peculiarità sta nel fatto che ha delle cappelle tinteggiate di rosa. Infatti, le cappelle che affacciano sulla zona industriale, quando erano bianche, diventavano rosa per effetto delle polveri, per cui adesso le tinteggiano direttamente di quel colore per evitare problemi». Il procuratore Sebastio e i suoi pm, a un certo punto delle indagini sul disastro ambientale, hanno avvertito la necessità di una perizia chimica. Ovvero di capire se intorno all’Ilva, la più grande acciaieria d’Europa, e nella città vi sono sostanze pericolose e da dove provengono. E quali misure sono state adottate per salvaguardare la salute dei lavoratori. Siamo al luglio del 2010, quando la Procura spedisce le carte al gip che fissa l’incidente probatorio. Nomina i suoi consulenti e aspetta che gli indagati (i fratelli Riva e il gruppo dirigente dell’Ilva) nominino i loro periti. Maledetta città. Perché qui, a differenza di Casale Monferrato, non c’è una fabbrica chiusa come l’Eternit. Qui la fabbrica, l’Ilva, produce ed è attiva 24 ore su 24. Ed è difficile fare qualsiasi cosa. Ci sono due perizie depositate al gip, l’ultima delle quali si discuterà il 30 marzo, che documentano indiscutibilmente il nesso tra decessi e fabbrica, tra causa ed effetto. La procura procede per i cosiddetti reati di pericolo non di danno. Sapete che significa? Significa che l’evento del reato (il disastro colposo) è nel momento del rischio. Vuol dire che non è necessario che il disastro produca morte e morti. Basta il pericolo che ci possano essere perché si consumi il reato stesso. E l’Ilva, secondo le perizie del gip, è responsabile di decine di morti. In questi giorni sindacati, governo, forze politiche si stanno spendendo all’inverosimile per scongiurare la morte della fabbrica. L’altro giorno il ministro per l’Ambiente, Corrado Clini, si è incontrato con il sindaco di Taranto, Ippazio Stefano, e il governatore della Puglia, Nichi Vendola. «Spero che l’Ilva colga questa opportunità e non si ponga come freno». Clini ha annunciato che vuole riesaminare l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia), che l’Ilva ha già contestato rivolgendosi al Tar di Lecce che le ha dato ragione. Sempre il ministro: «Bisogna lavorare per la messa in sicurezza e la bonifica delle aree contaminate e per restituire alla città spazi di crescita sostenibili». E la città assiste sgomenta. È cresciuta. Colpisce il protagonismo di una nuova borghesia intellettuale. Su Internet, la rete, Faceboock è esplosa una primavera di iniziative web contro la grande fabbrica. Tutto sembra un po’ viziato anche dalla scadenza elettorale. Il leader dei Verdi Angelo Bonelli si è già candidato a sindaco, con un programma che prevede la chiusura dell’Ilva. Lo scrittore Giancarlo De Cataldo, tarantino che ha scelto Roma «come patria d’adozione», intervistato sul web, ha sostenuto: «Abbiamo bisogno di una fabbrica che produca senza inquinare, nel rispetto delle leggi e nello stesso tempo di un atteggiamento fattivo». Parla proprio da intellettuale. Dimenticando la sua prima vita, quella di magistrato. Il 30 marzo, le due Taranto potrebbero darsi appuntamento in Tribunale, dove si svolgerà l’incidente probatorio sulla perizia medica. E sarà una giornata da dimenticare.