ILARIA MARIA SALA, La Stampa 19/3/2012, 19 marzo 2012
Cina, la rivincita di Foxconn - Un reportage dalle fabbriche cinesi, prima o poi, lo ha fatto ogni giornalista che abbia lavorato dalla Cina: producono tutto e per tutti, spesso in condizioni lavorative di estrema durezza, ma sono anche la prova della volontà di milioni di cinesi di mettere tutto il meglio di loro stessi, della loro forza e giovinezza, per conquistarsi un futuro migliore
Cina, la rivincita di Foxconn - Un reportage dalle fabbriche cinesi, prima o poi, lo ha fatto ogni giornalista che abbia lavorato dalla Cina: producono tutto e per tutti, spesso in condizioni lavorative di estrema durezza, ma sono anche la prova della volontà di milioni di cinesi di mettere tutto il meglio di loro stessi, della loro forza e giovinezza, per conquistarsi un futuro migliore. Guardare le loro vite dall’esterno lascia sensazioni conflittuali: se ne ammira la determinazione, si è più o meno consapevolmente grati di poterci permettere a un prezzo conveniente il frutto della loro fatica, ma a malapena si sopprime il disagio del sapere che vivono in capannoni che possono essere pericolanti, hanno poco modo di difendere i loro diritti, e salari bassi in modo impossibile. Molti, dopo aver chiacchierato con loro a Shenzhen e Dongguan, nel Sud della Cina, si ripromettono di seguire più da vicino le problematiche del lavoro cinese, e a volte il confine fra attivismo e giornalismo sfuma. In gennaio, quella che sembrava un’inchiesta-bomba, trasmessa dal programma «This American Life», condotto da Ira Glass per la Chicago Public Radio e la Public Radio International, denunciò una volta di più quello che Apple «non può non sapere»: lavoratori minorenni, altri avvelenati dagli elementi tossici che compongono iPad e iPhone, sorvegliati da guardie armate. Il programma è stato il più ascoltato della storia della trasmissione, e ha scatenato una reazione a catena rimbalzando sui media del mondo intero: Mike Daisey, editorialista ed attore, si era così indignato e appassionato al destino dei lavoratori della Foxconn, uno dei principali fornitori della Apple, da farne un monologo teatrale, «The Agony and the Ecstasy of Steve Jobs». Daisey era stato a Shenzhen, aveva parlato coi lavoratori, partecipato a incontri clandestini di vittime di incidenti sul lavoro, visto le guardie armate. Le visite e conversazioni fuori dalle fabbriche di altri giornalisti, che potevano esserci sembrate buone lì per lì, paragonate a quelle di Daisey erano insipide. Poi un giornalista di Marketplace.org, Rob Schmitz, ha deciso di verificare quanto fatto da Daisey, scoprendo che le parti più sensazionali del suo lavoro erano inventate, ma «verosimili». Daisey ha ammesso l’impostura, dicendo però che il suo errore è stato dire che il suo teatro fosse giornalismo, ma che era in buona fede, per «raccontare una storia che catturasse la totalità del mio viaggio». Visto che in America il giornalismo è preso sul serio, se una storia viene rivelata come fraudolenta viene ritirata e denunciata come tale, e la testata che l’ha diffusa se ne scusa. Ma l’operato di Daisey ha risvolti pericolosi: in Cina, i lavoratori che soffrono condizioni di lavoro inaccettabili sono una realtà, e solo le loro lotte, la pressione di alcune Ong, della stampa internazionale e dei consumatori migliorano le cose. Spesso gli abusi avvengono con il benestare delle autorità locali, che denunciano poi come «anti-cinese» il lavoro di giornalisti, attivisti per i diritti umani e membri dei parlamenti mondiali che se ne occupano: ora, hanno una scusa in più per dire che le denunce sono dei falsi «anti-cinesi».