LUCA RICOLFI, La Stampa 19/3/2012, 19 marzo 2012
NÉ DESTRA NÉ SINISTRA: MENO TASSE
Ogni tanto se ne riparla. La settimana scorsa, poi, è stato un profluvio: quasi simultaneamente, Corte dei Conti, Banca d’Italia, Garante per la privacy l’hanno ripetuto: in Italia le tasse sono troppo alte, mentre le garanzie a tutela del cittadino onesto sono insufficienti, nonché in preoccupante declino.
Poi però, come è appena successo nei giorni scorsi, il tema rientra e si torna a dibattere delle solite cose, rimandando al futuro ogni intervento di riduzione delle aliquote.
Insomma, possiamo anche rallegrarci che ogni tanto se ne riparli, ma dovremmo essere coscienti che sono parole al vento. I governi hanno altre priorità, e i cittadini probabilmente anche.
Perciò, anziché lodare l’ennesimo effimero sussulto anti-tasse, vorrei cercare di rispondere alla domanda: perché, verosimilmente, non se ne farà nulla nemmeno questa volta?
Una prima ragione, a mio parere, è che il tema delle tasse ha un sapore ideologico troppo forte. Diciamolo brutalmente: se chiedi meno tasse sei bollato come uno «di destra», nella migliore delle ipotesi come un «vecchio liberale».
Sì, certo, c’è stato anche un tempo - dopo i successi delle rivoluzioni liberiste di Reagan e della Thatcher - in cui lo slogan «meno tasse» si era fatto strada nella cultura progressista, quantomeno nei paesi in cui la sinistra non era troppo conservatrice. Ma quel tempo ora è finito, e la sinistra di oggi è completamente rientrata nei ranghi: ridurre le tasse non è una sua priorità, e persino la destra - spaventata dalla crescita del debito pubblico - preferisce dedicarsi a temi meno scottanti. Ridurre le tasse è tornato ad essere uno slogan di destra, che - tuttavia - la destra stessa ha paura di agitare.
C’è però un’altra ragione, molto più importante perché più concreta, per cui i governi riescono solo a parlare di riduzione delle tasse, raramente passando dalle parole ai fatti: ed è che tutti i governi, quale che sia il loro colore politico, letteralmente vivono di tasse. È grazie alle tasse che possono spendere, ed è spendendo che si procacciano i voti degli elettori, ossia la base stessa del proprio potere. La macchina dei favori elettorali richiede sempre più soldi, e i soldi si possono trovare solo in due modi: facendo debiti e mettendo più tasse. Finita l’era dei debiti - perché i mercati hanno detto basta - restano solo le tasse.
Ma la ragione più insidiosa che rende permanentemente inattuale il programma della riduzione delle aliquote è, a mio parere, di natura culturale, per non dire teorica. Ed è che la teoria che dovrebbe stare alla base di un programma politico di riduzione delle tasse è oggi minoritaria, non solo in Italia ma nella maggior parte delle società avanzate. Non saprei dire perché sia così, ma è così.
L’unico argomento veramente forte a favore della riduzione delle tasse è che aliquote troppo alte soffocano la crescita e noi - con il debito pubblico che ci ritroviamo - non possiamo permetterci un altro decennio di stagnazione. Il problema è che questo tipo di analisi, che sarebbe parsa semplicemente ovvia anche solo una decina di anni fa, oggi non è più tale. Oggi il senso comune di osservatori, studiosi e analisti è completamente cambiato. Per molti vale l’ingenuo corto-circuito che collega le minori tasse alla rivoluzione liberista, e la rivoluzione liberista alla crisi degli ultimi anni: se il liberismo ci ha portati all’attuale disastro, pensano costoro, non è ripristinandolo che ne usciremo. Ma anche fra gli studiosi, che non si basano su impressioni ma su ricerche, le cose sono molto cambiate da allora. Oggi la teoria della crescita snobba le tasse, e punta tutte le sue carte su leve come capitale umano, innovazione, tecnologie informatiche, investimenti in ricerca e sviluppo, liberalizzazioni, concorrenza. Tutte cose che o non costano nulla (liberalizzazioni), o comportano più spese (capitale umano), non certo un minore prelievo fiscale.
Si potrebbe dire, semplificando un po’ per chiarire, che il pendolo ideologico della teoria della crescita si è spostato. La teoria della crescita ha avuto quasi sempre un’anima liberale, perché non ha mai smesso di credere nel ruolo cruciale del mercato, della concorrenza, del libero scambio, fino alla recente totale adesione al paradigma della globalizzazione. Ma accanto a questo nucleo teorico liberale (di cui molti esponenti dell’attuale governo italiano sono convinti assertori) nel dibattito sulla crescita degli ultimi cinquant’anni sono sempre stati presenti almeno due altri elementi portanti: l’idea della basse aliquote, e l’idea degli investimenti in capitale umano. Insomma un’anima che i più considererebbero di destra (meno entrate fiscali) e un’anima che considererebbero di sinistra (più spese per l’istruzione). Negli Anni 90 il pendolo della teoria oscillava verso destra, oggi oscilla verso sinistra.
Io penso però che sia sbagliato, in questo campo, scegliere secondo parametri ideologici. Non solo perché l’evidenza empirica disponibile suggerisce che tutti e tre i gruppi di fattori - istituzioni economiche efficienti, alta qualità dell’istruzione, basse aliquote sui produttori - hanno un impatto elevato (e di entità comparabile) sul tasso di crescita, ma perché un paese che vuole tornare a crescere dovrebbe partire - innanzitutto da un’analisi spietata dei propri ritardi. La prima cosa che un Paese dovrebbe chiedersi non è se preferisce una politica di destra o di sinistra, ma qual è la leva più potente che ha a disposizione, e quanto tempo ha di fronte a sé. Nel caso dell’Italia la risposta è che, se come termine di paragone si prendono le economie avanzate (Paesi Ocse), i suoi due ritardi fondamentali - e dunque le leve su cui ha maggiori margini di miglioramento - sono le mancate liberalizzazioni e l’elevatissima pressione fiscale sui produttori. Con un’importante differenza, tuttavia: che le liberalizzazioni non potranno produrre effetti apprezzabili prima di 5-10 anni, mentre una riduzione incisiva delle aliquote sui produttori può darci un 1% di crescita in più nel giro di 1-2 anni.
In breve, vorrei dire che sulla crescita sarebbe bello che si cominciasse a ragionare in termini più empirici e pragmatici. Si può essere di destra o di sinistra, ma si dovrebbero preferire le politiche di cui il proprio paese ha bisogno in un dato momento storico. Essere europei, forse, significa anche questo. Un cittadino europeo, oggi, dovrebbe preferire politiche «di sinistra» dove e quando la crescita è frenata dalla bassa qualità del capitale umano, politiche «di destra» dove e quando la crescita è soffocata dalle tasse che gravano su chi produce ricchezza. E l’Italia, che piaccia o no, non ha (ancora) il record dell’ignoranza, ma detiene saldamente quello delle tasse.