Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  marzo 20 Mercoledì calendario

Paradossalmente proprio chi si propone come deciso difensore degli interessi dei lavoratori sembra aver dimenticato la lezione di Marx

Paradossalmente proprio chi si propone come deciso difensore degli interessi dei lavoratori sembra aver dimenticato la lezione di Marx. Eppure una parte di quella lezione rappresenta un valido strumento per capire e gestire il passato prossimo e il presente. Il teorico del socialismo scientifico sosteneva - come è noto - che una profonda modificazione delle «forze di produzione», cioè delle tecnologie produttive, dei mezzi di trasporto e di comunicazione, della formazione e organizzazione del lavoro provoca un’altrettanto profonda modificazione dei rapporti di produzione, quindi dei rapporti di potere all’interno della sfera economica. Tralascio i passi successivi delle tesi marxiste, come quella del dominio assoluto dell’economia sulle altre sfere, perché sono assai meno convincenti e utili. Una radicale trasformazione delle forze di produzione ha modificato i rapporti di potere nelle relazioni industriali. Prodotti più leggeri, quindi più facili da trasportare, mezzi di trasporto più veloci e meno costosi, comunicazioni più rapide, efficaci e a basso prezzo hanno reso possibile delocalizzare. È diventato fattibile e conveniente spostare anche molto lontano dalla casa madre originaria, non solo spezzoni di produzione e servizi, ma anche gangli decisionali e persino la sede principale dell’impresa. Accordi e organizzazioni internazionali, in particolare la Wto, l’Organizzazione Internazionale del Commercio, istituita nel 1995 e nella quale a partire dal 2001 è stata accolta anche la Cina, hanno abbattuto barriere doganali che avrebbero inceppato il processo. Chi non gioca questa partita rischia di uscire dal gioco. Le imprese sono diventate sempre più multiformi e cosmopolite: non possono permettersi di privilegiare a tutti i costi gli interessi dei lavoratori della patria di origine. Anche se, potendo, lo farebbero e lo fanno. La delocalizzazione è una strategia macroscopica, ma costituisce solo uno degli strumenti che la trasformazione delle forze di produzione ha messo a disposizione dei datori di lavoro per affrontare situazioni di conflitto o di difficoltà. Dopo l’autunno caldo del 1969, che segnò un momento estremo di conflitto industriale (277.000 auto perse e 20 milioni di ore non lavorate alla Fiat) questa ed altre imprese reagirono introducendo tecnologie e organizzazioni produttive risparmia-lavoro. Rafforzarono anche la strategia del subappalto per trasferire su imprese minori l’onere di liquidare eventuali lavoratori in esubero e per ridurre il rischio di conflitti, più alto nei grandi stabilimenti. Anche l’afflusso di manodopera immigrata contribuisce a ridurre il potere contrattuale della forza lavoro autoctona nella misura in cui questi lavoratori hanno meno protezioni. Infatti, storicamente i sindacati dei Paesi di immigrazione hanno alternato richieste di blocco della immigrazione con azioni a favore dei diritti dei lavoratori immigrati per scongiurare una competizione al ribasso. Agli strumenti adottati per contenere i rischi e i costi di utilizzo della forza lavoro autoctona in attività produttive si è accompagnato un crescente distacco tra investimenti direttamente impiegati in quelle attività e strumenti finanziari basati su assicurazioni e contro assicurazioni, su scommesse sull’andamento dell’economia reale che assorbono ormai il grosso delle risorse finanziarie. Tutti questi sono processi iniziati da tempo e che da tempo sono stati abbondantemente analizzati. Lo hanno fatto anche le organizzazioni dei lavoratori, che però non hanno accettato di coglierne le conseguenze fino in fondo. Era ed è difficile per loro, perché una delle ovvie conseguenze è proprio la maggiore debolezza delle classi operaie nazionali. La controparte può contare sulle armi potenti che in parte ho citato. Al contrario, gli strumenti classici di lotta dei lavoratori, gli scioperi, i boicottaggi portati all’estremo provocano un effetto boomerang: perdita di competitività dell’impresa, meno profitti, meno uso di forza lavoro, più decisioni dannose per i lavoratori. C’è poco da essere soddisfatti. Fortunatamente, seppure in questa condizione di debolezza strutturale, le organizzazioni dei lavoratori possono agire a proprio vantaggio, ottenendo buoni risultati. Proprio in una situazione di svantaggio strutturale è cruciale per le sorti dei lavoratori che i sindacati non sbaglino strategia. Per evitare che i datori di lavoro cerchino di proteggersi dai lavoratori nazionali occorre aumentare il valore di quel lavoro, incrementarne la produttività. Questo non implica solo lavorare di più e in modo più flessibile: si tratta di una condizione necessaria ma non sufficiente e che può essere temperata adottando altre politiche convergenti. La produttività infatti aumenta quando si utilizzano mezzi di produzione più sofisticati, quando si opera in contesti più ricchi di infrastrutture e di servizi alle imprese, quando si può contare su una giustizia più rapida e prevedibile. Aumenta quando si riducono le specifiche imposte che aggravano il costo del lavoro; quando i lavoratori diventano più competenti, dotati di una formazione migliore che risponda alle richieste del mercato; quando gli addetti vengono occupati in imprese competitive. Tutto questo implica che i sindacati, sul terreno delle relazioni industriali, hanno oggi più interesse a cooperare che ad alzare il livello del conflitto. Non solo. Hanno pure interesse, ma questa è un’operazione assai più complessa, a contenere l’impatto negativo della globalizzazione e delle regole che l’accompagnano. La drastica riduzione dell’export cinese negli ultimi mesi potrebbe essere un fatto stagionale, ma in ogni caso dimostra che l’Europa resta un potente attore economico, un’indispensabile area di consumo globale. Quindi l’Europa è in grado di contrattare per proteggere le condizioni di vita dei propri lavoratori, dei propri cittadini. Se lo vuole. Per farlo - come ci ha ricordato su questo giornale l’ambasciatore tedesco a Roma - deve diventare un attore economico internazionale forte e coeso. È urgente e necessario che i sindacati abbiano voce in questi processi di trasformazione, che siano in grado di entrare in coalizioni trasversali vincenti, che diventino promotori di modernizzazione, capaci di muoversi su uno scacchiere internazionale. Se non ora, quando?