Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 20/3/2012, 20 marzo 2012
Bisognerebbe tornare alla filologia: che significa adesione ai testi, rigore della verifica e degli accertamenti storici
Bisognerebbe tornare alla filologia: che significa adesione ai testi, rigore della verifica e degli accertamenti storici. Ma significa anche rivendicazione della libertà intellettuale contro le manipolazioni e le falsità (come insegna Luciano Canfora, che definisce la filologia «la più eversiva delle discipline»). La filologia non è solo una disciplina accademica che riguarda le opere letterarie del passato, è un modo di leggere il mondo, un atteggiamento intellettuale e si potrebbe aggiungere morale: serve a non accogliere passivamente notizie diffuse e interpretazioni acquisite. Tutto ciò emerge con chiarezza dal saggio di Alberto Varvaro, Prima lezione di filologia (Laterza), specialmente dall’ultimo capitolo sulle responsabilità del filologo: «In primo luogo — scrive Varvaro — il filologo insegna (dovrebbe insegnare) ad avere la massima cura per la trasmissione dei testi; in secondo luogo insegna (dovrebbe insegnare) quanto sia delicato e complesso interpretarli correttamente. Questo vale per Omero e Virgilio come per Arbasino ed Eco, ma anche per le dichiarazioni di un ministro o per le memorie di una stella del cinema» (ciò comporta che una dose di filologia sarebbe indispensabile anche ai giornalisti). Il rispetto del testo è rispetto della verità, e per testo si intende quello letterario e quello comune, quello scritto, quello orale, quello digitale. Stando alle falsità e alle bufale che circolano nel web, non ci resta che sperare che la filologia venga sempre più praticata anche come forma di resistenza al mainstream. Il re della filologia italiana (ma non solo) è stato Gianfranco Contini, il cui centenario della nascita ricorre quest’anno. In un bel libro-intervista di Ludovica Ripa di Meana, Diligenza e voluttà (1989), Contini faceva capire bene l’ottica del filologo. Sosteneva, per esempio, che nel linguaggio degli italiani c’è una crescente «ventata di irrazionalità», una «ventata di follia collettiva». Sosteneva che l’italiano «non si presta a comunicare delle verità». E citava il gergo dei politici, la cui astrazione linguistica è dovuta al fatto che «dovrebbero occuparsi di cose concrete, invece si occupano di potere, e surrogano il potere alle cose concrete, e ne fanno delle mescolanze, degli zabaglioni». Nella critica letteraria, viceversa, Contini vedeva regnare una sovrana saggezza: «sovrana, imperiosa e leggermente tediosa». Probabilmente non lo ripeterebbe oggi, il primo comandamento essendo evitare la noia e acquisire «amici» o «followers» (anche se non postano e non twittano): perciò si va avanti a slogan, come in politica. Resterebbe valido invece un rimprovero che il filologo faceva ai critici del suo tempo: «La maggior parte di costoro vanno a letto sapendo e sperando o, piuttosto, essendo certi che si sveglieranno il mattino dopo. Io vorrei che qualcuno avesse qualche dubbio, sul suo risveglio».