Paolo Mieli, Corriere della Sera 20/3/2012, 20 marzo 2012
Eugen Dollmann era nipote del medico di fiducia dell’imperatrice austriaca Sissi e un giorno, il 10 luglio del 1914, alla vigilia della Prima guerra mondiale, suo padre gli fece conoscere l’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe
Eugen Dollmann era nipote del medico di fiducia dell’imperatrice austriaca Sissi e un giorno, il 10 luglio del 1914, alla vigilia della Prima guerra mondiale, suo padre gli fece conoscere l’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe. All’epoca Dollmann aveva 14 anni e per il resto della sua vita restò impressionato dal tratto, dall’eleganza, dallo stile di quel «grande» che aveva avuto l’occasione di incontrare. Studiò poi all’università Ludovico Massimiliano di Monaco, dove si laureò con lo storico Hermann Oncken che gli cambiò il destino procurandogli una borsa di studio in Italia per scrivere una tesi sul cardinale Alessandro Farnese. Alessandro Farnese che, avrebbe scritto Dollmann, «fu così fortunato da non avere in me il suo biografo: nel 1945 i servizi segreti alleati a Roma trovarono una cesta piena di documenti, appunti, fogli d’archivio, riproduzioni e altro ancora sul suo conto; credettero probabilmente che si trattasse di un agente di collegamento con il Vaticano e portarono via tutto il materiale». Perché tanta attenzione da parte dei servizi segreti alleati? Dollmann era diventato il rappresentante in Italia di Heinrich Himmler, con il quale aveva un rapporto personale e diretto, nonché buon amico del potente capo della polizia fascista Arturo Bocchini, e in quanto tale il nazista più importante e misterioso a Roma sotto l’occupazione tedesca. Prima di partire alla volta del nostro Paese aveva conosciuto un’altra personalità del suo tempo, l’ex cancelliere tedesco Bernhard von Bülow, il quale gli aveva detto una frase destinata a restargli impressa: «Resti tutta la vita in Italia, lì si trova sempre una via d’uscita da qualunque situazione e persino dalle alleanze». Dollmann seguì quel consiglio. Di lui ha scritto Erich Kuby ne Il tradimento tedesco (Rizzoli): «Era un ufficiale superiore delle SS, pur non avendo mai messo piede in una caserma, ma non c’era una sola ordinanza emanata dall’alto a giustificare la vita brillante che il nostro conduceva nella Roma occupata». In compenso, com’è ovvio, «abbondavano le dicerie e le voci; certo è che durante il periodo 1943-44 fu il tedesco più potente, e di conseguenza il più temuto, nella capitale italiana». Frequentava l’alta società, proseguiva Kuby, «con la naturalezza e la disinvoltura di un pesce nell’acqua, era una iena da salotto, parlava l’italiano come d’Annunzio, si era rimpinzato di cultura italiana e sapeva come gettare polvere negli occhi fingendo di indossare l’uniforme delle SS per puro divertimento e dando a credere di non essere altro che l’interprete di cui i dittatori si servivano a volte, in occasione dei loro incontri». Eitel Federico Moellhausen, console in quegli stessi anni di Germania a Roma — in La carta perdente. Memorie diplomatiche 25 luglio 1943 - 2 maggio 1945, edizioni Sestante — parlò così delle relazioni tra lui e il capo operativo delle SS a Roma, Herbert Kappler: «Corsero tra loro rapporti buoni soltanto in apparenza, in realtà Kappler non riconosceva a Dollmann le qualità adatte per occupare il posto di rappresentante politico delle SS… Lo giudicava molle, senza virilità e senza carattere; a sua volta Dollmann considerava Kappler intollerante, freddo e spietato». Suo grande estimatore fu, invece, il feldmaresciallo Albert Kesserling, che nella prefazione a un suo libro (L’eroe della paura, edito da Longanesi) scrisse: «Eugenio Dollmann rappresenta esattamente il contrario di tutto ciò che il mondo è abituato ad associare al nome di SS, egli è stato l’uomo che, coi suoi soli mezzi ed entro i limiti a lui imposti, ha fatto di tutto per dare alla guerra un volto umano, e si deve riconoscere che in parte vi è riuscito». Persino lo storico inglese Raleigh Trevelyan, che prese parte allo sbarco di Anzio e combatté in Italia contro i tedeschi, scrisse (in Roma ’44, edito da Rizzoli) che Dollmann era tutt’altro che «un mostro assetato di sangue». Adesso la casa editrice Le Lettere pubblica un suo libro, La calda estate del 1943, composto da articoli e saggi pressoché inediti che Dollmann scrisse nei primi anni del secondo dopoguerra. Racconta Dollmann che dopo la caduta del fascismo (25 luglio del 1943) si occupò di «stabilire fili di collegamento con il potentissimo dittatore della Fiat, ingegner Vittorio Valletta» per mettere in piedi «un gabinetto pulito formato possibilmente da tecnici e funzionari apolitici, preferibilmente non compromessi con il fascismo». Piano che, dopo l’8 settembre e la liberazione di Mussolini dal Gran Sasso, «venne accantonato con danno per tutti, italiani e tedeschi». A proposito della suddetta liberazione del Duce, la definisce «una leggenda», deride il «liberatore» Otto Skorzeny («non era che una ruota dell’ingranaggio»), ed esalta la figura di chi ordì quel piano, il generale Kurt Student. Parla della sua diffidenza nei confronti di Galeazzo Ciano (che, però, a suo dire, quando fu fucilato a seguito del processo di Verona, «morì da valoroso») e della sua stima nei confronti di Dino Grandi («ovunque mi si presentasse l’occasione, esprimevo sempre la mia preferenza per Grandi»). Non gli piaceva Ciano, ma ammirò sua moglie Edda («aveva sempre esercitato su di me una grande impressione»). Del ministro degli Esteri tedesco von Ribbentrop, scrive che fu un «megalomane». Ad arricchire il libro, già di per sé molto interessante, una illuminante prefazione di Francesco Perfetti, secondo il quale che la figura di Dollmann fosse di primo piano «lo si vide nei giorni frenetici e drammatici che precedettero e seguirono la caduta del fascismo, quando quest’uomo di bell’aspetto, biondo, elegante, dall’eloquio brioso e frizzante, fu al centro di attenzioni, incontri, pressioni da parte di chi pensava di poterne utilizzare le conoscenze, giocando sulle sue amicizie e inimicizie, per ottenere informazioni, lanciare messaggi o ricavare qualcosa». Una terribile macchia restò, però, sulla divisa di Dollmann: quella del massacro — il 24 marzo del 1944 — delle Fosse Ardeatine. In un colloquio del 28 luglio 1946 tra Mario Missiroli e Giovanni Ansaldo (che ne scrisse nel libro Anni freddi. Diari 1946-1950, il Mulino), si registrano voci che collegavano — «peraltro impropriamente», precisa Perfetti — il «mostro» Dollmann all’eccidio. E invece, secondo Perfetti, va ricordata «l’iniziativa posta in essere all’indomani dell’attentato di via Rasella, quando la sera del 23 marzo 1944 Dollmann cercò di interessare il Vaticano tramite l’abate generale dell’Ordine dei Salvatoriani, padre Pancrazio Pfeiffer, e ottenerne l’intervento al fine di scongiurare l’eccidio delle Fosse Ardeatine». Della stessa natura, aggiunge lo storico, fu anche l’organizzazione, con l’aiuto di Virginia Agnelli, di un colloquio segreto fra il generale Wolff e il Pontefice (Pio XII), che ebbe come esito almeno la liberazione (mal digerita da Kappler) del giurista Giuliano Vassalli. Le sue doti di «mediatore e di tessitore di accordi segreti», Dollmann ebbe modo di metterle in luce anche durante l’agonia della Repubblica sociale, allorquando, trasferitosi al Nord dopo la liberazione di Roma, diventò protagonista, utilizzando la mediazione del cardinale Ildefonso Schuster e poi attraverso i suoi diretti rapporti con i servizi segreti americani, «delle trattative che avrebbero portato alla resa dei tedeschi». Il che gli procurò un qualche credito a Washington. Tant’è che, sulla base di documenti statunitensi recentemente declassificati, si può affermare che «gli Alleati non solo coprirono Dollmann, ma pensarono anche di utilizzarlo per operazioni di intelligence e, del resto, egli fu in contatto anche con i servizi segreti italiani». Servizi segreti italiani che nel 1949 gli rilasciarono addirittura un falso passaporto intestato a Eugenio Amonn, grazie al quale Dollmann poté riparare in Germania e trasferirsi a Monaco, dove visse indisturbato fino al 1985. Ma, tornando alle Fosse Ardeatine, per una singolare coincidenza della ricerca storica, proprio in questi giorni si riaccendono le luci su una delle figure di maggior rilievo tra quanti trovarono la morte in quella strage nazista: il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, capo della Resistenza monarchica a Roma. L’editore Dalai sta per dare alle stampe un esaustivo libro di Mario Avagliano, Il partigiano Montezemolo, che si pregia di un’acuta prefazione di Mimmo Franzinelli e di un’appendice di Sabrina Sgueglia della Marra. Quest’ultima ha scritto poi un saggio, dal titolo Uno scambio fallito, che sarà pubblicato a breve dalla «Nuova Rivista Storica», saggio in cui è contenuta una importante rivelazione. Sgueglia, già autrice per parte sua di una pregevole biografia del colonnello (Montezemolo e il Fronte Militare Clandestino), edita dall’ufficio storico dello stato maggiore dell’Esercito, ha trovato documenti molto importanti, che gettano una nuova luce su come i nazisti catturarono Montezemolo. Da queste carte emerge che Montezemolo fu tradito da una personalità di spicco della resistenza monarchica. In che modo? Siamo nei primi mesi del 1944. Gli Alleati sono appena sbarcati ad Anzio, ma si sono arenati su quel litorale a 55 chilometri da Roma (arriveranno nella capitale solo agli inizi di giugno). Il 25 gennaio Montezemolo va in via Tacchini ad una riunione clandestina a casa di Filippo de Grenet. All’uscita, le SS lo arrestano, lo conducono nel carcere di via Tasso e, successivamente, alle Fosse Ardeatine dove troverà la morte. Come riuscirono i nazisti in questa impresa? Nel libro Lettere a Milano (Editori Riuniti), Giorgio Amendola ipotizzò che quella cattura fosse dovuta ad una delazione da parte di qualcuno interessato ad infrangere la collaborazione tra militari (leali a Vittorio Emanuele III) e partiti del Comitato di liberazione nazionale, ancora in parte ostili al re d’Italia. Manfredi, il figlio maggiore di Montezemolo, pur ammettendo di non avere prove, pronunciò anche il nome del possibile delatore: il tenente colonnello Ettore Musco che, per degli errori commessi, era stato duramente redarguito da suo padre. Il fratello del colonnello ucciso alle Fosse Ardeatine, Renato Montezemolo, aveva invece puntato l’indice contro Elena Hohn, amante del tenente colonnello dei carabinieri Giovanni Frignani (l’uomo che il 25 luglio del 1943, su ordine del re, aveva tratto in arresto Benito Mussolini e che, anche per questo, era braccato dai nazisti). Pure in questo caso senza prove certe. Anzi, sulla base di semplici intuizioni. Adesso però c’è un’importante novità che viene fuori quasi per caso. Sabrina Sgueglia ha potuto consultare il carteggio (dal 1952 al 1972) tra l’avvocato Tullio Mango e il suo assistito Herbert Kappler. Che c’entrano Mango e Kappler con Montezemolo? Nel luglio del 1948 Kappler era stato condannato all’ergastolo non già per l’uccisione di 320 ostaggi alle Fosse Ardeatine (i giudici dissero di non avere la certezza che egli avesse avuto «la coscienza e la volontà di ubbidire ad un ordine illegittimo»), bensì per i dieci in più di cui decise la morte alla notizia che era deceduto il trentatreesimo poliziotto altoatesino rimasto ferito nell’attentato di Via Rasella e per le cinque persone uccise in soprannumero (i suoi coimputati erano stati invece assolti, perché i magistrati italiani valutarono che avevano agito per ordine superiore). Nei primi anni Cinquanta, Kappler si convinse che c’era anche per lui una nuova opportunità di uscire dal carcere militare di Gaeta e si era rivolto all’avvocato Mango, già vicequestore a Maderno nella Repubblica sociale, perché reimpostasse il suo caso. «Caro Tullio», gli aveva scritto, «sono deciso ad affidarmi alla tua discrezione da galantuomo e da persona nobile, al tuo senso di tatto e alla tua amicizia provata. Se mi vuoi e mi puoi aiutare ti sarò molto grato — ma anche se credi di non poterlo fare, per l’una o l’altra ragione, non te ne vorrò affatto e ti pregherò soltanto di dimenticare quanto ti avevo detto e chiesto. Mi rendo perfettamente conto che quanto ti avrò da chiedere non possa mai essere di gradimento ma, purtroppo, è straordinaria e tale anche la mia situazione attuale da poter, forse, giustificare sia una mia richiesta del genere come l’eventuale tua disposizione di agire in merito». Mango capì, leggendo tra le righe, che Kappler gli stava chiedendo qualcosa di più di un semplice esercizio di difesa. E provò a sottrarsi spiegando al suo interlocutore che sarebbe stato più funzionale un legale politicamente impegnato. «Ti dirò schiettamente», gli scrisse, «che i migliori risultati dei processi di questi ultimi tempi sono stati raggiunti proprio dagli avvocati dello stesso colore politico dei loro difesi. Ci sono in loro un calore, un convincimento, uno sdegno per le leggi eccezionali e per la giurisdizione eccezionale che, in un modo o nell’altro, hanno il loro peso nel processo. De Marsico è veramente un grande, un grandissimo avvocato: politicamente fu tra i membri del Gran Consiglio che il 25 luglio del ’43 votarono per la mozione Grandi, origine della caduta del fascismo. Suggerirei il suo nome a chiunque, anche se non è propriamente dei "nostri"». Ma l’uomo delle Ardeatine voleva un difensore affidabile sì, ma dal profilo politico meno pronunciato. E insistette con Mango che, alla fine, accettò l’incarico. La tesi difensiva di Kappler era stata che, dopo l’attentato di via Rasella, Himmler (e Dollmann che lo avrebbe consigliato in tal senso) progettava la deportazione in Germania degli abitanti di interi quartieri di Roma; al che lui, Kappler, «ritenendo la faccenda sotto tutti gli aspetti politici, umani, economici, della sicurezza, una mera bestialità» aveva fatto «l’unica cosa possibile per poterla evitare»: «Ho accettato l’ordine, ho detto dieci volte sì signore». Così facendo aveva evitato la deportazione di moltissimi uomini e donne. Ma non era questo il punto forte della nuova iniziativa destinata, secondo lui, a fargli riconquistare la libertà. Il punto riguardava la cattura di Montezemolo. In merito ad essa, al processo aveva detto che se ne era occupato il capitano delle SS Carl Schutz (poi tra gli esecutori materiali dell’eccidio delle Fosse Ardeatine) e che lui ignorava come Schutz avesse ottenuto l’informazione di giorno e luogo in cui avrebbe potuto catturare il colonnello. Mentiva. Kappler conosceva il nome di chi aveva denunciato Montezemolo e ora intendeva servirsene. In che modo? Nel 1953, Kappler, più che su una revisione del processo, mirava a un’amnistia che lo facesse uscire di prigione quasi di soppiatto. Doveva esserci, però, qualcuno che di questo progetto di amnistia, contenente una clausola a lui favorevole, si occupasse in Parlamento. Kappler lo individuò nell’uomo che aveva dato ai nazisti l’informazione decisiva per giungere alla cattura di Montezemolo: Enzo Selvaggi, anche lui esponente monarchico della Resistenza, fondatore e direttore del giornale «Italia Nuova», un uomo che nel dopoguerra era diventato assai famoso perché nel giugno del 1946 aveva presentato alla Corte di Cassazione il ricorso per invalidare il referendum con cui gli italiani avevano scelto la Repubblica. In seguito, anche per via di questa grande notorietà, alle elezioni del 1953, Selvaggi era stato eletto deputato nelle fila del Partito monarchico. E in quanto parlamentare adesso, secondo i desiderata di Kappler, avrebbe dovuto occuparsi dell’amnistia. Selvaggi era stato arrestato dalle SS nel gennaio del 1944 e, nella versione ufficiale, dopo un lungo interrogatorio era stato rilasciato dal momento che la polizia tedesca «ammise» di «aver commesso un errore di persona». Dopodiché riparò in Vaticano, restando però in contatto con la Resistenza che lo considerava un eroe particolarmente fortunato. In realtà, stando ai ricordi che Kappler confidava adesso, nel 1953, al proprio avvocato (il quale ne prese diligentemente nota e tale nota è adesso spuntata fuori dalle sue carte), era stato liberato dai nazisti dopo che aveva parlato rivelando dove, come e quando le SS avrebbero potuto catturare Montezemolo. Per essere più preciso Kappler indicò a Mango la foto di Selvaggi su un giornale. Il tutto è rimasto nell’incartamento di Mango. Assieme ad una lettera del capo SS datata 17 luglio 1953. «Mio caro Tullio», recita la missiva, «oggi ti trasmetto una letterina che ti dovrebbe servire d’introduzione presso quel signore di cui abbiamo guardato insieme la foto ritaglio di giornale. Ti ricordi vero? Ed anche quanto te ne dissi? Ritengo che non possa fare del male attaccare con lui una discussione sul come penserebbe di ricambiare il mio silenzio, ti pare? Comunque dovrebbe essere informato che sono riuscito a trattenere i miei amici dal rendere noto quanto anche loro si ricordano bene. Forse egli crederà morto Schutz e gli potresti dire che invece sta bene… e si ricorda! Mi potrei immaginare che si potesse giungere a una vera "pacificazione" non escludendo me dall’applicazione delle amnistie che sono state e che saranno. Mi comprenderai, caro Tullio, e saprai far bene come sempre. Lascio decidere a te come meglio credi. Naturalmente sono dispostissimo di garantire anche pel futuro (ed il tuo interlocutore dovrà convenire con noi che so mantenere davvero la mia parola!) la discrezione sin’ora mantenuta, ma ho anch’io certi doveri specie verso la mia vecchia Mamma ammalata e priva del sostegno dell’unico suo figlio». Proprio in quei giorni, però, Selvaggi fu vittima di un grave incidente automobilistico e per Mango fu impossibile, come scrisse a Kappler, «avvicinarlo» immediatamente. Se ne riparlò a settembre, quando l’onorevole si ristabilì. Mango lo incontrò e ne riferì a Kappler in questi termini: «Ho fatto visita a quel signore della foto. Gli ho consegnato la tua lettera e gli ho detto che tu, pur non avendo voluto fornirmi precisazioni, avevi motivo di far ricorso alla sua riconoscenza. Imperturbabile, mi ha risposto che ti ricordava con piacere, ti stimava come un gentiluomo, ma credeva di non doverti essere particolarmente grato. Ho risposto che mancavo, su questo punto, di concrete notizie data la tua riluttanza a parlare anche col tuo avvocato di fiducia, di questioni concernenti un determinato periodo, ma che comunque non mi era del tutto difficile intuire qualcosa, riservandomi di insistere con te per essere meglio informato. Dopo generici accenni alla sopravvivenza di Schutz e di altri tuoi ex dipendenti, ho detto al mio interlocutore che, in ogni caso, io desideravo ottenere dal suo gruppo politico l’appoggio ad un allargamento dell’imminente beneficio in modo da includere anche te. Su questo egli ha fatto le più ampie promesse ed io mi sono "cordialmente" accomiatato lasciandolo deliberatamente cuocere nel suo brodo». In una lettera successiva Mango informò Kappler che Selvaggi gli aveva detto di essersi attivato e di aver preso contatti con alcuni parlamentari, tra i quali il comunista Fausto Gullo, il ministro della Difesa Taviani e il sottosegretario Bosco (entrambi democristiani). Poi Mango aveva illustrato a Selvaggi un dettagliato progetto di amnistia dicendo: «Inutile dirle che non è necessario menzionare la questione specifica del col. Kappler, dato che la formula da me proposta si applicherebbe certamente anche a lui ma è abbastanza abile da non lasciarlo trasparire». Nel contempo Mango informava il suo assistito che «quel signore della foto» si stava dando da fare «molto attivamente». «Non voglio lasciarmi prendere dall’entusiasmo, anche perché sono solito vietarmi di essere ottimista», gli scrisse il 18 novembre del 1953, «ma credo proprio che per Natale sarai a casa, caro Herbert!». Finalmente, il 9 dicembre, la notizia tanto attesa: «Appena un quarto d’ora fa», scrive Mango a Kappler, «la Camera ha approvato il provvedimento di amnistia che, oltre ai reati politici e a quelli connessi, si applica ai reati (evidentemente di ogni genere dato che non vi sono limitazioni) comunque riferibili in tutto o in parte alla situazione determinatasi nel Paese per eventi bellici o per le loro successive ripercussioni, commessi non oltre il 18 giugno 1946. Come vedi, caro Herbert, il testo è così chiaro che non abbisogna di miei commenti!». Poi aggiungeva: «La notizia l’ho appresa al telefono dal noto onorevole», con un trasparente riferimento a Selvaggi. Ma le cose non erano state poi così semplici come apparivano all’avvocato Mango. L’iter per definire meglio i termini dell’amnistia fu lungo e tortuoso. E si concluse il 1° febbraio 1960, allorché il tribunale militare respinse l’istanza di applicazione del provvedimento di clemenza a Kappler. Selvaggi in ogni caso aveva fatto «il suo dovere». «La solerzia e l’impegno dimostrati immediatamente da Selvaggi», scrive Sgueglia, i tentativi indefessi di coinvolgere altri gruppi di deputati per condizionare gli equilibri parlamentari a favore di scelte legislative volte alla scarcerazione di Kappler, gli sforzi profusi in questo senso attestati dal suo epistolario con l’avvocato Mango successivi alla data dell’amnistia, appaiono come «un’ulteriore conferma della sua responsabilità». Né Kappler, né Mango si occuparono più di lui. Anche perché, particolare curioso e destinato ad affascinare i dietrologi, Enzo Selvaggi scomparve, prima ancora della conclusione della vicenda, nel 1957, in un secondo (dopo quello del ’53) incidente automobilistico. Singolare che l’uomo che custodiva quel terribile segreto sia stato vittima, nel giro di pochi anni, di due gravi infortuni d’auto. Davvero molto singolare. paolo.mieli@rcs.it