Lara Ricci, Domenica-Il Sole 24 Ore 18/3/2012, 18 marzo 2012
L’ITALIA, BELLA E INCOMPRENSIBILE
«La sua gloria è estinta e, con la sua grandeur sgretolata dei moli e dei palazzi che le stanno intorno, se ne sta tra le sue lagune stagnanti, derelitta e impoverita, dimentica del mondo. Lei, che nei suoi giorni più fortunati aveva il controllo dei commerci di un intero emisfero e che decretava fortune e miserie di nazioni muovendo un potente dito, è diventata la più umile tra tutte le genti della terra, una venditrice ambulante di perline di vetro e di insignificanti giocattoli e ninnoli per ragazzine e bambini». È Venezia, naturalmente, nelle parole di Mark Twain che come tanti turisti odierni ne rimase inizialmente deluso. Vi si recò a 32 anni, un secolo e mezzo fa, pochi mesi dopo la Terza guerra d’indipendenza, quando nel 1867 imperversava il colera nell’Italia appena nata. Le impressioni che ne ricavò le raccolse in The Innocents Abroad, un libro di viaggio che in vita fu il suo best seller. Le pagine sulla penisola sono state di recente ripubblicate con il titolo In questa Italia che non capisco.
Con l’oscurità, Venezia torna all’antico splendore, e Twain si entusiasma. «C’era una festa, una grandiosa festa in onore di un santo non meglio identificato che, trecento anni prima, aveva svolto un ruolo importante nel bloccare il colera e ora l’intera Venezia si trovava sull’acqua. Non era una faccenda abituale, perché i veneziani non sapevano quanto presto avrebbero avuto nuovamente bisogno dei servigi del santo, ora che il colera si stava diffondendo dappertutto. Per cui, in un vasto spazio erano assiepate duemila gondole e su ciascuna di esse erano appese da due a dieci, venti e persino trenta lanterne colorate. Fin dove giungeva lo sguardo, quelle luci colorate erano ammassate come un ampio giardino di fiori multicolori, solo che in quel caso i fiori non stavano mai fermi, apparivano e sparivano incessantemente e si fondevano tra loro, ammaliandoti e frastornandoti nel tentativo di seguire le loro intricare evoluzioni. Ciascuna gondola che ci passava accanto, con le relative falci e piramidi e cerchi di luci colorate che le sovrastavano, illuminando i volti dei passeggeri giovani, profumati e bellissimi in basso, era un quadro. E i riflessi di quelle luci – lunghi, sottili, innumerevoli e multicolori, distorti e sgualciti dalle onde – erano a loro volta un quadro, un quadro di una bellezza ammaliante. Le gondole di gala di moltissimi gruppi di giovani dame e gentiluomini erano splendidamente decorate e quei giovani cenavano a bordo, portandosi appresso i propri paggi in frac e cravattino bianco perché li servissero e facendosi apparecchiare la tavola come per un pranzo nuziale. Si erano portati appresso i costosi paralumi e le tende di pizzo e seta dai relativi salotti, immagino. E si erano pure portati appresso pianoforti e chitarre e suonavano e cantavano le opere, mentre le gondole plebee dalle lanterne di carta provenienti dai sobborghi e dai canali secondari vi si affollavano intorno, in osservazione e ascolto. C’era musica dappertutto: cori, orchestre di archi, bande di ottoni, flauti, di tutto».
Quello di Twain è un viaggio nell’Italia di allora vista con gli occhi di un monello americano dallo spirito critico molto sviluppato e irriverente, dall’ironia tagliente, ma anche capace di magnifiche descrizioni. Alcune ancora perfettamente calzanti, altre che parlano di un mondo ormai scomparso. Milano gli piace moltissimo. «Al crepuscolo, siamo giunti nei pressi di Milano e abbiamo intravisto la città e le vette azzurre alle sue spalle. Morivamo dalla voglia di vedere la rinomata cattedrale! Alla fine, una giungla di aggraziate guglie, luccicanti nella luce ambrata del sole, si è lentamente elevata sui bassi tetti delle case allo stesso modo in cui talvolta ci capita di osservare, sull’orizzonte lontano, una massa dorata e torreggiante di nubi sollevarsi sulla distesa di onde, nel mare: la cattedrale! Lo abbiamo capito istantaneamente. Per metà di quella nottata e per l’intera giornata successiva, questo autocrate architettonico è stato l’oggetto esclusivo del nostro interesse. Che meraviglia! Così imponente, così solenne, così grande! Eppure, così delicata, così eterea, così elegante! Un mondo solido che, tuttavia, al chiaro di luna, pare un’illusione fatata di arabeschi di ghiaccio pronta svanire in un soffio! Con quale nitidezza le sue guglie ornate di angeli e la turbolenza dei suoi pinnacoli si stagliavano contro il cielo e con quale ricchezza le loro ombre si proiettavano sul suo tetto candido! Una visione! Un miracolo! Un inno intonato nella pietra, una poesia incisa nel marmo!».
Lo lascia però perplesso la tomba di San Carlo Borromeo, «l’eroe della gente comune», l’uomo che tenne «il pregnante sermone, il cui succo era: voi che adorate le vanità del mondo, voi che agognate gli onori terreni, la ricchezza terrena, la fama terrena, fate attenzione al loro valore!». Ebbene: «All’interno di una bara di cristallo di rocca trasparente come l’aria giaceva il corpo, rivestito di abiti preziosi zeppi di ricami d’oro e di gemme scintillanti. La testa decomposta era annerita dal tempo, la pelle secca era tesa e schiacciata contro gli ossi, gli occhi erano spariti, c’erano un foro su una tempia e un altro nella guancia e le labbra sottili erano aperte in un sorriso spettrale! Su quel viso orribile, sulla polvere e sulla decomposizione e sul suo sorriso sbeffeggiante poggiava una corona tempestata di diamanti scintillanti e, sul suo petto, poggiavano croci e pastorali d’oro zecchino, in un luccichio di smeraldi e diamanti. Quanto sembravano meschini e squallidi e banali quei fronzoli di fronte alla solennità, alla grandeur, all’orribile maestà della morte! Pensate a Milton, Shakespeare, Washington di fronte a un mondo riverente ornato delle perline di vetro, degli orecchini d’ottone e del ciarpame di latta dei selvaggi delle pianure!»
Le riflessioni di carattere etico e politico del giovane Twain impressionano per la loro sagacia, ma anche per la loro sconcertante attualità. «Ci sono parecchie cose in questa Italia che io non capisco, ancor meno capisco come sia possibile che un governo in bancarotta possa avere scali ferroviari così sontuosi e strade statali così fantastiche» tuona un giorno che è di cattivo umore. «L’Italia ha realizzato la sua aspirazione più cara ed è diventata uno stato indipendente. E, così facendo, ha attratto un elefante nella lotteria politica. Non ha nulla con cui alimentarlo. Senza alcuna esperienza in campo amministrativo, si è gettata in spese inutili di ogni tipo e ha affondato il proprio erario quasi in un solo giorno». Twain non risparmia neanche il passato: «l’Italia per millecinquecento anni ha concentrato tutte le sue energie, tutte le sue finanze e tutta la sua operosità nella costruzione di una vasta gamma di meravigliosi edifici ecclesiastici, affamando metà dei suoi cittadini pur di riuscirvi. Al giorno d’oggi, è un grande museo di magnificenza e miseria. È il paese più disgraziato e principesco della terra. Guardate il sontuoso duomo di Firenze, un ampio edificio che da cinquecento anni va svuotando i portafogli dei suoi cittadini e che non è ancora stato ultimato. Al pari di qualsiasi altro uomo, sono caduto in ginocchio in adorazione, ma, quando i luridi mendicanti mi si sono accalcati intorno, il contrasto si è fatto troppo stridente, troppo evocativo, e io ho detto, “Figli dell’Italia classica, lo spirito di intraprendenza, di fiducia in voi stessi, di nobile impegno è del tutto morto in voi? Sia maledetta la vostra indolente indegnità: perché non depredate la vostra chiesa?”».
Mark Twain, In questa Italia che non capisco, traduzione di Sebastiano Pezzani, Mattioli 1885, Fidenza,
pagg. 178, € 15,90