Il Sole 24 Ore 18/3/2012, 18 marzo 2012
L’EREDITÀ VIVA DI MARCO BIAGI
Pensava all’Europa Marco Biagi. A quell’Europa che «occupa» ma soprattutto sa «rioccupare». E lo aveva fatto in anticipo, intuendo l’inevitabilità di uno sguardo ampio, di un approccio senza condizionamenti. Pensava che non ci sono tutele se le tutele non sono per tutti. A dieci anni dalla sua morte, si riparte da qui. Da quello che del suo Libro Bianco è stato realizzato, ma pure da quello che non lo è stato. Da quelle, ad esempio, agenzie per il lavoro che, prima, quando l’economia cresceva, hanno caratterizzato il lavoro in somministrazione come la porta d’ingresso verso un’occupazione stabile, e che oggi, che i numeri tra recessione e spread sono quel che sono, si candidano ad essere una stampella nei processi di placement. Si riparte dall’apprendistato che ha, a lungo, rischiato di finire "fuori moda", destinato solo ad alcune professioni artigiane di nicchia, e che ora invece sarà il contratto prìncipe per assumere tecnici, certamente, ma anche ricercatori, avvocati, commercialisti. Si riparte dalla convinzione che se è dei giovani e degli inoccupati che bisogna in particolare occuparsi non per questo bisogna scordare chi è dall’altra parte del percorso: chi il lavoro l’ha avuto ma lo ha perduto.
Ed è forse questa, tra tutte, l’urgenza che meglio cesella, in questo anniversario, l’eredità di Marco Biagi e che la salda con il futuro, con quella riforma cioè che il governo si prepara ad approvare con le parti sociali: ridefinire il meccanismo di protezione, ovvero rioganizzare gli ammortizzatori. È l’incompiuta del libro Bianco da compiere ormai senza ulteriori dilazioni, come anche il suo lascito.
Perché? Perché quando Biagi lavorava alle norme che avrebbero recepito la direttiva europea sul contratto a termine, con l’evidente obiettivo di stimolare le nuove assunzioni, certo non avrebbe immaginato che da allora ad oggi il tasso disoccupazione sarebbe aumentato, dall’8% al 9,2%, e che ad essere penalizzati sarebbero stati proprio quegli under 30 e quelle donne a cui, con ogni probabilità, si rivolgeva quando scriveva del lavoro intermittente, del lavoro a coppia, dello sviluppo del lavoro a tempo parziale.
Dunque, se l’economia è andata in una direzione dieci anni fa non immaginabile, tocca ora al diritto recuperare terreno. Rendendo onore al fatto che la nostra quotidianità professionale dalla sera del 19 marzo del 2002 è mutata in modo molto più radicale di quanto lo stesso Biagi avrebbe forse pronosticato. Dicevamo dell’Europa e di quanto per lui fosse un chiodo fisso: che la strada sia la continuità tra le politiche attive e quelle passive come accade in Danimarca o in Svezia ora è certezza acquisita. Le parole "modello danese" tornano nel dibattito con straordinaria frequenza, alludendo a riferimenti culturali dati per assodati. Vale lo stesso per la consapevolezza che non esiste più il lavoro ma i lavori. Che non esiste un’unica contrattazione, ovvero quella nazionale, ma che organizzazione del lavoro e retribuzione è meglio che siano temi affrontati nei luoghi più vicini ai lavoratori, quindi l’azienda, quindi che la contrattazione è anche aziendale. Un passaggio quest’ultimo più lento e faticoso ma anch’esso ormai compiuto.
Ecco allora che nei giorni della memoria ha senso guardarsi alle spalle e contare i passi compiuti, se ciò diventa slancio verso la modernità. Serena Uccello • LA SCELTA DI PUNTARE SULL’APPRENDISTATO - Sono molti. Sono davvero troppi. Gli incentivi collegati in vario modo al lavoro, alla formazione, alla promozione dell’occupazione e alla creazione di impresa sono all’incirca una cinquantina. Un recente censimento ne ha annoverati per la precisione 47... Una situazione difficilissima ormai da decifrare anche per gli addetti ai lavori. Figuriamoci per gli imprenditori e per gli stessi lavoratori. É inutile riepilogarli. Si va dai classici incentivi per l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro (apprendistato, tirocinio, contratti di formazione e lavoro, sgravi per nuovi assunti addizionali, corsi di formazione eccetera), agli interventi a favore di disoccupati adulti e cassaintegrati...
Vari meccanismi sono dedicati a categorie specifiche di lavoratori... Per non parlare di quelle che ormai in gergo sono denominate work experiences, quali i piani di inserimento professionale, le borse lavoro e i lavori di pubblica utilità. É giusto chiedersi se un sistema di questo genere possa ancora giustificarsi. La risposta negativa appare scontata sulla base di semplici considerazioni. Innanzitutto il risultato complessivo non è incoraggiante... Un’incessante stratificazione di leggi, di regolamenti che senza (quasi) mai abrogare istituti preesistenti, ne hanno incessantemente aggiunto dei nuovi, sulla base delle richieste delle imprese e dei sindacati di fare qualcosa di nuovo, qualcosa di più. Una pressione congiunta delle parti sociali che spesso hanno assieme dimenticato di sollecitare piuttosto gli impegni concordati nei vari accordi di concertazione sociali per conseguire almeno un riordino dei contratti a finalità formativa.
Valga per tutti l’esempio del contratto di formazione e lavoro e dell’apprendistato. Solo recentemente ...il Governo sembra intenzionato a fare chiarezza sul punto, distinguendo fra strumenti dedicati ai giovani e quelli a disposizione dei disoccupati adulti. Una logica preventiva della disoccupazione di lungo periodo, con conseguente alto rischio di esclusione sociale, fortemente raccomandata dalla stessa Unione europea. C’è davvero da augurarsi che il progetto riformatore veda presto la luce e abbia la capacità di restituire serietà all’intento formativo insito in questa tipologia di rapporti agevolati, troppo spesso disatteso in passato... L’opera di semplificazione, quasi di disboscamento di questa vera e propria giungla, è assolutamente indispensabile. Forse sarebbe addirittura il caso di fare, almeno per certe aree di intervento come per i giovani, addirittura un Testo unico. In ogni caso, come sempre raccomandato dalle autorità comunitarie, bisogna semplificare, alleggerire una congerie di misure che non riescono così scoordinate tra loro a raggiungere gli effetti sperati. Tutto questo comprende anche una maggiore sinergia fra strumentazione nazionale e interventi adottati in sede regionale. Con la prospettiva di fare delle Regioni e delle Province delle amministrazioni in grado di produrre una propria politica dell’occupazione. Cumulando ora la formazione e i servizi all’impiego sarebbe impensabile continuare in una logica di separatezza fra Governo centrale ed enti locali. Oltre che degli incentivi esistenti sul piano normativo occorre parlare anche di quelli futuri. Le imprese hanno trovato nel lavoro coordinato e continuativo (il parasubordinato) un incentivo fatto in casa per accendere nuove collaborazioni. É tempo di mettere ordine anche in questa materia che è diventata forse la tecnica preferita per avviare un periodo di prova illimitato (e deregolato) con la persona che eventualmente si assumerà. Le parti sociali (alquanto latitanti a riguardo) potrebbero assumere un’iniziativa anche nell’ambito dell’accordo del 23 luglio 1993... Bisogna quindi scegliere poche tecniche, rivederle e renderle facilmente utilizzabili. Con strumenti semplici si crea occupazione e si combatte il sommerso: su questo dovremmo essere tutti d’accordo. Questo articolo di Marco Biagi è pubblicato per la prima volta sul Sole 24 Ore del
28 settembre 1998 • ARTICOLO 18, PER IL CNEL DA RIVEDERE GIÀ NELL’85 - Grazie alla iniziativa di questo giornale, ora tutti sanno che una modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non è una novità nell’agenda politico-sindacale italiana. Il documento votato dal Cnel il 4 giugno 1985 è assai chiaro a riguardo. Si affermava infatti in quel lontano (ma attualissimo) testo che «complessivamente l’esperienza applicativa dell’articolo 18 dello statuto non suggerisce un giudizio positivo della reintegrazione». Nessuno vuol sostenere naturalmente che proposte elaborate oltre tre lustri addietro siano necessariamente valide ancor oggi. Tutti siamo consapevoli del fatto che ogni prospettazione deve essere collocata in un preciso contesto politico-sindacale di riferimento. Eppure in questa materia le ragioni di quella scelta furono condivise (e comunque mai avversate) da uomini come Luciano Lama, Pierre Carniti e Giorgio Benvenuto, oltre che da Vittorio Merloni... Quale lezione trarre dall’aver rievocato questo importante passaggio del dibattito giuslavoristico? Innanzitutto non è possibile nascondere un interrogativo: perché mai Cisl e Uil avrebbero cambiato idea? Forse che nel frattempo la reintegrazione si è estesa come meccanismo sanzionatorio in altri Stati membri dell’Ue? Assolutamente no. Può affermarsi che questo meccanismo sanzionatorio si è rivelato sorprendentemente efficace? Neppure. Anzi, semmai è vero l’esatto contrario: sempre meno sono i lavoratori coperti da questa forma di tutela e più rari risultano i casi di effettiva reintegrazione.
Le proposte del Governo di revisione dell’articolo 18 sono in ogni caso ben più modeste. Nel 1985 nessuno prospettava alcuna forma di sperimentazione: ogni riforma avanzata in materia avrebbe dovuto avere carattere strutturale. Non solo, ma oggi il problema è impostato in un’ottica promozionale dell’occupazione per promuovere la diffusione del lavoro di buona qualità, quindi innanzitutto del contratto di lavoro a tempo indeterminato. Una logica da un lato più ambiziosa (far crescere anche in questo modo il tasso di occupazione), dall’altro più limitata (sospendere la reintegrazione solo in una prospettiva premiale per i neo-assunti, per incoraggiare la trasformazione dei contratti a termine e combattere il nanismo delle nostre imprese). Certo, tra un documento del Cnel ed una proposta avanzata da un Governo che gode di un’ampia maggioranza parlamentare esiste una considerevole differenza. Ed anche scontando il fatto che il documento del Cnel fu a lungo elaborato con l’ampio coinvolgimento di numerosi esponenti (ed esperti) di varie aree politico-sindacali, resta pur sempre l’enorme differenza di accoglimento delle proposte: di condivisione, allora, mentre oggi si agita il fantasma dello sciopero generale. Resta francamente incomprensibile il rifiuto di discutere di questa problematica, al punto da oscurare tutti (o quasi) gli altri problemi di riforma del mercato del lavoro. La proposta di delega del Governo è infatti assai ricca e per certi aspetti ben più innovatrice ... Valga per tutti la prospettazione di introdurre nel nostro ordinamento lo staff leasing: un’eventualità di fronte alla quale nessun sindacalista si è ancora stracciato le vesti. Le soluzioni per ripensare l’articolo 18 sono ovviamente innumerevoli. Ciò che conta è intendersi una volta per tutte che non è affatto in discussione il principio del licenziamento giustificato, cardine del nostro ordinamento nazionale in omaggio a principi universalmente riconosciuti (almeno in Europa). É senz’altro possibile, durante il dibattito parlamentare, formulare ipotesi diverse, ad esempio più focalizzate sulla promozione dell’occupazione al Sud ovvero a favore di soggetti con particolare rischio di emarginazione sociale. Sarebbe davvero auspicabile che si tornasse con serenità a confrontarsi sul merito, ad esempio su cosa si intenda per equo indennizzo al lavoratore ingiustamente licenziato...
Questo articolo di Marco Biagi è stato pubblicato per la prima volta sul Sole 24 Ore del 29 gennaio 2002