Stefano Lorenzetto, il Giornale 18/3/2012, 18 marzo 2012
Gigi Vesigna ha festeggiato i suoi primi 80 anni con una cenetta a due, lui e la moglie Fiorella, sposata 50 anni fa, «il 1° maggio, di corsa, perché il 2 dovevo essere al Festival di Cannes, siamo partiti da Milano la sera stessa, abbiamo concepito nostra figlia Cristina e l’indomani ho cominciato da free-lance a dettare i miei pezzi al Piccolo di Trieste e all’Ora di Palermo, una luna di miele con 40 film, roba da medaglia d’oro della resistenza»
Gigi Vesigna ha festeggiato i suoi primi 80 anni con una cenetta a due, lui e la moglie Fiorella, sposata 50 anni fa, «il 1° maggio, di corsa, perché il 2 dovevo essere al Festival di Cannes, siamo partiti da Milano la sera stessa, abbiamo concepito nostra figlia Cristina e l’indomani ho cominciato da free-lance a dettare i miei pezzi al Piccolo di Trieste e all’Ora di Palermo, una luna di miele con 40 film, roba da medaglia d’oro della resistenza». Tre giorni dopo l’arzillo ottantenne s’è concesso una replica con la consorte e tre amici del cuore, il conduttore Maurizio Seymandi, la sua ex assistente di redazione e la responsabile del servizio fotografico di Famiglia Cristiana, «siamo stati alla Baita di via Cellini, la conosci?, fanno la miglior pizza del mondo, ci andava sempre anche Silvio Berlusconi». Se non fosse quel tipo schivo che è, Vesigna avrebbe avuto qualche altro record da festeggiare. È stato l’unico giornalista al mondo a dirigere quattro testate contemporaneamente, Tv Sorrisi e Canzoni, Noi, Ciak e Forza Milan, e la seconda e la terza le ha pure fondate. È stato l’unico direttore d’Europa a prendere in mano a 653.000 copie (nel 1973) un settimanale specializzato, Tv Sorrisi e Canzoni appunto, e a lasciarlo a 2.940.000 (nel 1994), «ma una volta abbiamo venduto anche di più, perché ho il ticchio della cabala e ne feci tirare 3.333.333 esemplari per festeggiare non mi ricordo più che cosa, e siccome avevamo una resa del 2 per cento appena, contro il 25 dei concorrenti...»; una diffusione mostruosa, mai più vista in questo Paese, tanto che l’amministratore delegato Amedeo Massari gli diceva: «Oh, Gigi, ma lo sai che con le tue tirature guadagniamo un sacco di soldi perfino dai ritagli di carta della legatoria?». E non basta. È stato il primo cronista a vedere la registrazione di un programma sperimentale della televisione in Italia, «era il 1950, salii di nascosto su un traliccio della sede Rai di corso Sempione con la complicità di Sante Giola, un fotografo della Tv di Stato che mi aveva preso in simpatia». È stato l’unico inviato speciale a sciropparsi oltre mezzo secolo di edizioni del Festival di Sanremo, a eccezione delle prime che venivano ignorate dai giornali, fino alla 62ª di un mese fa, «però solo due volte dentro il teatro Ariston, dove mi avrebbero voluto in prima fila», ha sempre preferito la sala stampa, «in mezzo a 400 colleghi che fanno a gara a chi è più pirla», oppure una saletta dell’hotel Royal, «davanti a un televisore, che è il modo migliore per giudicare quello che vedi e che senti, perché è quello che vede e che sente il pubblico da casa». Per la verità Vesigna è figlio del grande schermo, non di quello piccolo. Divenne cinefilo per necessità: «Durante la seconda guerra mondiale una bomba aveva sventrato il tetto della camera da letto nella nostra casa di via Mac Mahon e così la sera andavamo al cinema Aurora, zona Paolo Sarpi, o in altre sale, dove almeno c’era il riscaldamento. Umano, a fiato». Il padre Otello, originario della Spezia, era un piccolo produttore di strumentazioni per la Tv, quando si dice il caso; la madre Margherita, pugliese di Andria, era una maestra elementare immigrata a Milano negli anni Venti insieme con l’amica Enza, che di lì a poco avrebbe dato alla luce Walter Chiari, quando si ridice il caso. Già nel 1955, mentre le famiglie il sabato sera andavano a vedere Lascia o raddoppia? nei bar oppure nei cinema parrocchiali costretti a sospendere la normale programmazione, i Vesigna si radunavano davanti al loro televisore nel tinello di casa. Fu con la recensione di un film, Mr. Belvedere suona la campana, interpretato da Clifton Webb nei panni di un sussiegoso maggiordomo, che Vesigna esordì nel giornalismo, all’età di 18 anni: «Fu pubblicata da Settimana Radio Tv. Ero fierissimo. Per la prima volta scrivevo su un giornale che usciva nelle edicole. Fino ad allora m’ero dovuto accontentare della Zanzara, il giornalino del liceo Parini che 15 anni più tardi sarebbe finito sotto processo per un’inchiesta sulla sessualità degli studenti». L’editore di Sorrisi e Canzoni d’Italia, Giuseppe Campi, lo stesso dell’Almanacco Barbanera, la assunse con la seguente motivazione: «Mi hanno detto che lei è un grandissimo figlio di puttana. Motivo per cui la voglio a lavorare con me». Che aveva combinato? «Niente. Andavo in fondo alle cose, senza guardare in faccia nessuno. Campi era un genio. Acquistava i diritti dalle case editrici musicali e pubblicava i testi delle canzoni su questo foglione che veniva venduto nelle fiere di paese. Accanto metteva le foto degli interpreti. Allora c’era solo la radio, non si sapeva che faccia avessero i cantanti. Però il mio primo mentore, alla Settimana Radio Tv, fu Luciano Pedrocchi, che col regista Cesare Zavattini inventò i fotoromanzi e Bolero. Un grande maestro. Per convocarti a rapporto suonava un campanello. Le sue non erano opinioni, ma verità di fede. Quando avevi ragione ti dava torto, figurarsi quando avevi torto: ti sbriciolava. Mi ha insegnato che i direttori hanno sempre ragione, cioè torto, per una questione di sopravvivenza». Come diventò direttore di Tv Sorrisi e Canzoni? «Ero inviato speciale da sette anni, il periodo più bello della mia vita. Campi non sapeva chi scegliere come direttore e chiese a me. Per sfilarmi, tentai un bluff e gli dissi: se sposta la redazione da Roma a Milano, accetto. Chi poteva immaginare che lo avrebbe fatto davvero?». Perché metteva le date di nascita dei Vip nelle didascalie delle foto? «Ero stufo di sentirmi chiedere in casa: “Ma quanti anni ha quella lì?”. Così, per evitare rotture di balle, mi misi a scriverlo sul settimanale». Chissà quante amicizie rovinate. «Vuoi sapere quali dive s’arrabbiavano di più? Tutte. Milva in particolare». Ma è vera la leggenda secondo cui le gemelle Kessler in realtà avrebbero un anno di differenza? «No. Tu non hai idea di quanti portieri d’albergo ho corrotto al Cantagiro perché mi mostrassero le carte d’identità delle Kessler. Entrambe nate il 20 agosto 1936». In che modo la Tv ha cambiato questo Paese? «Ha unificato il linguaggio. Prima l’Italia non parlava l’italiano. È stata la televisione, con Non è mai troppo tardi del maestro Alberto Manzi e gli sceneggiati di Sandro Bolchi, a insegnarglielo». Da allora è migliorata o peggiorata? «Be’, direi che s’è deteriorata in modo imbarazzante. Quando vedo il Grande fratello e L’isola dei famosi, o anche L’arena di Massimo Giletti, giro la testa dall’altra parte. Oddio, non riesco a spegnere subito, perché un po’ subisco l’effetto Wanna Marchi, l’urlo attira sempre, c’è poco da fare. Mi salvo con la Gialappa’s e Striscia la notizia». Com’era il mondo dello spettacolo agli inizi della sua carriera? «Praticabile». Non è che lei ci abbia messo del suo per renderlo impraticabile? «Io credo d’essermi limitato a fare il giornalista. Accompagnavo i divi perfino in viaggio di nozze: Milva e Maurizio Corgnati nelle Langhe, Patty Pravo e Franco Baldieri in Egitto, Caterina Caselli e Piero Sugar in Kenya. La Pravo voleva vedere a tutti i costi la tomba di Tutankhamon, ma si fermò all’ingresso: temeva la maledizione del faraone. Alla Caselli il giorno del matrimonio portai nella basilica di Sant’Ambrogio il numero di Sorrisi fresco di stampa col titolo “Perché mi sono sposata”. Un azzardo, visto che Sugar era febbricitante per una vaccinazione antimalarica e la cerimonia aveva rischiato un rinvio. E così venni a sapere che la coppia sarebbe andata in luna di miele in Africa. Mi attaccai al telefono. Fingendomi un cliente, chiesi ai maggiori tour operator di Milano se potessero organizzarmi una vacanza nel continente nero, nelle stesse località dov’è andata la Caselli, specificavo. Alla fine imbroccai l’agenzia di viaggi giusta. Volai in Kenya con un fotografo. La mattina alle 8, all’Hilton di Nairobi, bloccai gli stupefatti sposini mentre uscivano dall’ascensore. Trattiamo, gli dissi: o posate per un servizio fotografico o vi inseguiamo per due settimane. Indovina quale soluzione scelsero». Che c’entrano le prediche di Celentano col Festival di Sanremo? «C’entrano col masochismo della Rai che l’ha scritturato». Già, ma perché l’ha scritturato? «Mah, lì c’è tutto un giro... Hanno messo in mezzo Gianni Morandi e poi fa tutto ’sto Mazzi (Gianmarco Mazzi, direttore artistico del Festival, ndr) che ha lavorato nel Clan del Molleggiato. Io dico solo che un minimo di elasticità, in un contratto del genere, lo devi mantenere. Altrimenti diventa dogma. Lui ha preteso il dogma. Fosse stato almeno divertente. Ci hanno costretti a parlare di Celentano prima per capire che cosa avrebbe detto e poi per capire che cosa aveva detto». Chi escogitò questo giochino dello scandalo programmato che attira l’attenzione su Sanremo? «È nato da solo. Le telefonate del tipo “guardate che oggi pomeriggio m’incontro con Tizia nel tal posto” sono sempre arrivate alle redazioni, non è che le abbia inventate quello lì della Belén (Fabrizio Corona, fotografo, compagno della showgirl Belén Rodríguez, ndr). Il mio settimanale non c’è mai cascato perché non inseguiva il gossip. Parliamoci chiaro: lo scandalo vero è che a Sanremo si sono sempre comprati i biglietti dei posti dove sedeva il pubblico che votava le canzoni». Può essere più chiaro? «Venivano sorteggiate alcune file del teatro. La gente seduta su quelle poltrone decideva il vincitore. Perciò i discografici si accaparravano i biglietti per avere più possibilità di far votare le proprie canzoni in concorso». Lei fu criticato perché nel 1981 e nel 1982 alla vigilia di Sanremo mise in copertina quelli che poi ne sarebbero stati i vincitori, Alice e Riccardo Fogli. «Due volte su tre becco il vincitore ancora oggi, se è per quello». Perché persino io, che non ho mai seguito il Festival, dalla lettura dei giornali quest’anno sono riuscito a predire a mia moglie che avrebbe vinto quella Emma? «Emma l’ho indovinata anch’io. A dire il vero aveva vinto Noemi, ma è rimasta in testa solo un quarto d’ora. Poi s’è scatenato il televoto degli amici degli amici e ha vinto Emma. Ha talmente vinto che Noemi è arrivata terza, neanche seconda. Ed era prima. Il televoto è una roba vergognosa, sai? Ti compri un call center, paghi 2 euro una telefonata che a loro costa 1,75 e vinci. È un modo per far soldi da parte della Rai e delle compagnie telefoniche». C’è arrivato per intuito o ha le prove? «È un sospetto fondato. Due anni fa Pupo, il principe Emanuele Filiberto di Savoia e il tenore Luca Canonici stavano per vincere con Italia amore mio. Sarebbe stato un disastro, perché non c’era proprio la canzone. Mi risulta che sia entrato in azione un funzionario della Rai. Morale: il loro numero di telefono ha smesso di funzionare, dava sempre occupato, ho provato io stesso a chiamare. E ha vinto Valerio Scanu, arrivato a Sanremo grazie ad Amici di Maria De Filippi, che era al secondo posto. Ma c’è riuscito solo perché avevano bloccato il numero telefonico di Pupo e del principe. Un ordine partito dall’alto. Ti ripeto: sono ipotesi. Le quali però, stranamente, ottengono i risultati che t’aspetti». Nel 1951 il Corriere della Sera confinò la notizia della prima edizione del Festival nelle pagine delle «Recentissime», in 13 righe compresse fra i necrologi e la notizia di un incidente ferroviario. Non sarebbe meglio tornare a quella sobrietà informativa? «In effetti abbiamo esagerato. Era cominciato come una semplice cena allietata dalle canzonette di tre soli interpreti e guarda che razza di ambaradan è diventato. Presenziarvi costa più che andare a Shanghai». Una cena? «Certo. Mentre i cantanti si esibivano, gli spettatori seduti davanti mangiavano e i camerieri urlavano: “Un risotto al 5, una bistecca al 3”. È da lì che nacque il famoso saluto del presentatore Nunzio Filogamo: “Cari amici vicini e lontani”. L’hanno interpretato come una benedizione urbi et orbi. Invece era il suo benvenuto agli avventori che cenavano in prima fila e a quelli che sorseggiavano drink nell’ultima». Il miglior presentatore nella storia di Sanremo? «Mike Bongiorno. Gli amici Renzo Arbore e Gianni Boncompagni al Festival del 1966 gli giocarono un tiro mancino: si accordarono con la valletta Carla Maria Puccini, che finse di svenire in diretta. Mike, impassibile, continuò a parlare come se nulla fosse, mentre gli attrezzisti portavano via il corpo di questa sciagurata. Addirittura una volta riuscì a tirare dritto nonostante una spettatrice fosse morta in studio durante un suo programma. Quando Mike vedeva accendersi la lucina rossa sulla telecamera, diventava un’altra persona, si estraniava dal mondo, non conosceva più nessuno». Lei ha accompagnato i primi passi di Adriano Celentano, Mina, Giorgio Gaber e Lucio Battisti. Chi dei quattro s’è mantenuto più fedele al personaggio degli esordi? «Gaber, sicuramente. Non a caso gli altri tre si sono isolati. Mina vive nascosta a Lugano, però se ci parli insieme sta’ sicuro che ha visto l’ultimo film, ha letto l’ultimo romanzo, ha ascoltato l’ultima canzone. Ci telefoniamo spesso». E che cosa vi dite? «Se te lo raccontassi, perderei all’istante la sua amicizia, che è molto stretta. Il 23 agosto 1978, quando tenne il suo ultimo concerto dal vivo alla Bussola, in Versilia, al termine fece chiamare me e mia moglie in camerino e mi disse: “Gigi, ho chiuso. È finita”. Fui il primo a sapere del suo ritiro». Nessuna speranza di rivederla per un solo giorno in televisione? «Ma neanche alla radio!». Perché ha deciso di scomparire? «Era terrorizzata dal pubblico». Se si ritirassero tutti coloro che provano ansia da prestazione al momento d’esibirsi, il mondo dello spettacolo sarebbe scomparso da un bel pezzo. «Aggiungici che Mina è stata letteralmente massacrata dai media. Oddio, di materiale alla stampa ne ha fornito anche lei, un po’ di fidanzati li ha avuti. Ma pensa che cosa le farebbero passare se oggi fosse ancora sulla scena. Il problema, mi spiegava il presentatore Carlo Conti, attentissimo a difendere la sua privacy, non sono più i paparazzi che ti tendono gli agguati sotto casa bensì i vicini di tavolo impiccioni che ti fotografano col telefonino al ristorante». Mi spiega come riuscì a portare Tv Sorrisi e Canzoni a quelle mirabolanti tirature, con una diffusione quasi quadrupla rispetto a oggi? «E il fenomeno delle televisioni libere dove lo metti? Nel 1973 fummo i primi a pubblicare, sotto la programmazione della Rai, il palinsesto di Telebiella, l’emittente via cavo di Peppo Sacchi che infranse il monopolio pubblico. Fu un grande scandalo. E le grandi interviste in esclusiva? Lucio Battisti si calò dalla finestra sul retro di un albergo di Asiago, dov’era assediato dai giornalisti, e mi trovò lì sotto ad aspettarlo. Dovette rassegnarsi a rispondere alle mie domande. Era stato Vittorio Salvetti, il patron del Festivalbar, a svelarmi che Lucio avrebbe usato quella via di fuga». Interviste non solo con i divi, ma persino con i presidenti della Repubblica. «Una mattina alle 7 squilla il telefono: “Presidenza della Repubblica”. Mi passano Sandro Pertini: “Lei ha pubblicato sul suo settimanale la notizia che io mi vestirei da un sarto famoso. È falsa. Gli abiti me li fanno due anziani artigiani che hanno la bottega nel centro di Roma”. Chiesi il loro indirizzo e dedicai un servizio ai due vecchietti. Pertini, per ringraziarmi, m’invitò a pranzo al Quirinale e si lasciò intervistare. Anche con Francesco Cossiga ho avuto un feeling straordinario. Lo convinsi a posare per un servizio fotografico in cui indossava la maglia rosa del Giro d’Italia. Il giorno prefissato per gli scatti doveva ricevere un ambasciatore. Ci fece aspettare mezz’ora. Dopo che ebbe congedato l’ospite, finalmente riuscimmo ad agghindare il presidente. Solo che il diplomatico tornò sui suoi passi perché aveva dimenticato di dire una cosa a Cossiga e si ritrovò davanti al capo dello Stato vestito da ciclista». Ma perché i presidenti della Repubblica ci tenevano tanto a finire sulla copertina di Tv Sorrisi e Canzoni? «Avevamo 14 milioni di lettori, più dei voti che raccoglieva la Dc. Contavamo come un partito politico senza far politica». È vero quell’aneddoto di Silvio Berlusconi, in udienza con lei da Giovanni Paolo II, che dice al Papa: «Santità, questo è Gigi Vesigna, direttore di Tv Sorrisi e Canzoni: un milione di copie, molte più di Panorama!». Col Pontefice che esclama: «Panorama! Io leggo sempre Panorama!». «Non ricordo di Panorama. Però escludo che Berlusconi abbia parlato di un milione di copie, dato che ne vendevo oltre 2 milioni». L’ha scritto Massimo Gramellini. «Io rammento solo che il Santo Padre ci aveva ricevuti col Milan e che Berlusconi gli presentò Ruud Gullit precisando il numero dei gol segnati quell’anno dall’attaccante olandese. Avevo un ottimo rapporto anche con Karol Wojtyla. Un anno gli consegnai il Telegatto». Il Super Telegattone al Papa? «Sì, caro. Ti spiego come feci. Tv Sorrisi e Canzoni invitò in Italia a proprie spese una coppia di bambini, un maschio e una femmina, da ciascuno dei cinque continenti e li portò in udienza da Giovanni Paolo II. Una mia idea nel segno della fratellanza. E per l’occasione Sua Santità accettò il Telegatto». So di darle un dispiacere, ma Enzo Biagi, che vinse parecchi Telegatti, mi confidò che li usava come fermaporte nella sua casa di via Vigoni. «Ottimi anche come fermalibri. Enzo era un caro amico, al pari di Indro Montanelli. È capitato che Michele Santoro venisse inserito dal pubblico nelle terne dei candidati al Telegatto ma poi rimanesse a bocca asciutta. Andava su tutte le furie: “Possibile che abbia vinto ancora Biagi? Sei sicuro?”. Come sarebbe a dire se sono sicuro? Oh, non è mica un sondaggio di Renato Mannheimer. Mettevamo dentro il settimanale una cartolina già affrancata e i lettori ce ne spedivano due milioni col loro voto. Santoro veniva alla festa di assegnazione ed era sempre incazzato nero perché la gente premiava Biagi». Come mai la scelta della mascotte cadde sul gatto? «Avendo molti attori in concorso, non potevo certo scegliere il cane». In che modo conobbe Berlusconi? «Allo stadio San Siro spesso ero seduto vicino a lui in tribuna. Veniva a vedere il Milan col papà Luigi e il fratello Paolo, ma nessuno ci aveva mai presentati. Finché una sera fui invitato a una festa ad Arcore». Con o senza bunga bunga finale? «Ma no, stava ancora con la prima moglie, Carla Dall’Oglio, e al ricevimento c’era mezzo mondo, direttori di giornali, imprenditori, artisti. Io mi appartai per tutta la sera in una stanzetta a chiacchierare con Carlo Alberto Rossi, il compositore di alcune delle più belle canzoni di Mina, Quando vien la sera, E se domani, Le mille bolle blu. Il giorno dopo mi telefonò Vittorio Moccagatta, l’uomo di fiducia del Cavaliere: “Berlusconi vuol sapere perché ieri sera non sei venuto alla festa”». Le risulta che furono mamma Rosa e una zia suora, assidue lettrici di Sorrisi, a indurlo a comprare il settimanale? «Non lo so. Quello che so è che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di averlo». Perché nel 1995 da direttore di un quotidiano, Il Telegiornale, lei non ebbe lo stesso successo conseguito con Sorrisi? Durò appena 33 giorni, mi pare. «Non ero il direttore. L’avevo solo progettato. Me lo chiese un’eterogenea compagnia di giro, capeggiata da Antonio Di Pietro, che allora era Gesù Cristo sulla Terra, nelle vesti di garante del lettore. Dietro c’erano alcuni colossi farmaceutici, che chiusero subito i rubinetti». Sbagliò compagnia di giro. «Succede. Ti racconto un caso analogo. Fui ingaggiato per dirigere Gente dall’editore Edilio Rusconi, che come giornalista aveva portato Oggi al successo. Avevo già firmato. Entrai nel suo ufficio, con in tasca la lettera d’assunzione appena firmata. Era al telefono. Coprì la cornetta con la mano e muovendo le labbra sillabò sottovoce: “Le sto preparando la copertina per il numero di Natale”. Girai i tacchi e me ne andai. Più rivisto. Non potevo lavorare per un editore che pretendeva di decidere chi mettere in copertina. Berlusconi non ci ha mai nemmeno provato». C’è un programma televisivo o un conduttore che proprio non sopporta? «Sono indeciso fra Santoro e quello di Ballarò, come si chiama?». Giovanni Floris. «Non capisco se sorride perché è contento o perché ha una paresi. Sfodera un sorriso finto. Bada, non c’entra la politica. È la sua spocchia a indispormi». Il più grande dello spettacolo? «Per qualità, Vasco Rossi, anche se non approvo quello che dice sulla droga, senza rendersi conto che i ragazzi lo ascoltano come se fosse un profeta. Invece per umanità...». (Lunga pausa). «Sai che non mi viene in mente nessuno? Bisogna cercare nel passato. Oggi domina la finta umanità. Devo pensarci». Un sorriso che non si può dimenticare? «Quello di Lucio Dalla. Mi mostrò una stanzetta, quasi un ripostiglio, della sua grande casa di Bologna. Dentro c’era solo un lettino. Mi confessò che si rifugiava spesso lì. S’era fatto dipingere di blu notte il soffitto e ci aveva messo tante stelle che s’illuminavano schiacciando l’interruttore della luce. Aveva questo bisogno di stare vicino al cielo». Dicono che lei fosse un dio in terra, capace di fare e disfare carriere. Sia sincero: a quanti ha spianato la strada? «Mai regalato copertine. Semplicemente vedevo le cose un quarto d’ora prima degli altri. Il segreto sta tutto qui: intuisci un fenomeno, lo fai esplodere e quando poi è esploso sembra che sia merito tuo. Invece sarebbe esploso lo stesso. Sto scrivendo un libro, su quelle che tu chiami carriere. S’intitolerà Gli insoliti noti. Ah, senti, m’è venuto in mente il nome del divo più grande per umanità: Walter Chiari. Per me è stato un grande fratello. Occhio: un, non il».