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 2012  marzo 18 Domenica calendario

IN MANOVRA I 40 «RE» DEI MERCATI

BlackRock a giugno considerava l’Italia il quinto paese più rischioso al mondo, su una lista di 44 Stati. E lo scriveva nero su bianco. A dicembre, dopo il cambio di Governo, ha però cambiato idea: oggi addirittura sovrappesa, dunque acquista oltre le proporzioni normali, i titoli di Stato italiani. La notizia non sarebbe di grande rilievo, se BlackRock non fosse la società di fondi d’investimento più grande al mondo: ha in gestione 3.513 miliardi di dollari. Insomma: maneggia somme una volta e mezza più grandi del Pil italiano. Le sue scelte sono dunque in grado di mobilitare una quantità enorme di denari sui mercati finanziari. Tanto da far sorgere una domanda: BlackRock è in grado, solo per la stazza immensa, di influenzare i mercati stessi? Le sue decisioni potrebbero avere influito nella crisi prima, e nella salvezza poi, dell’Italia?
La stessa domanda potrebbe essere rivolta a molti altri giganti della finanza. I fondi pensione – secondo le stime di qualche anno fa di McKinsey – hanno in gestione nel mondo qualcosa come 25mila miliardi di dollari. I fondi comuni 18mila miliardi. Le assicurazioni 16mila miliardi. I fondi sovrani 5mila miliardi. Denari non equamente distribuiti, ma concentrati in pochi giganti che ne controllano la quota maggiore. Ci sono poi le grandi banche, che fanno girare – direttamente o indirettamente – la fetta maggiore dei mercati finanziari: i primi 5 istituti americani detengono per esempio 310mila miliardi di dollari di derivati. Chiamateli «burattinai». Oppure «padroni dell’universo». O anche «elefanti nella cristalleria»: sta di fatto che, comunque si muovano, potrebbero influire sulla crisi o sulla salvezza di interi Stati, aziende o banche.
Too big to fail
I primi «padroni dell’universo» sono proprio le grandi banche. Non solo hanno attivi totali giganteschi: Barclays arriva a 2.167 miliardi di dollari (pari al Pil della sua patria, cioè la Gran Bretagna), Hsbc a 2.438 miliardi, Bank of America 2.221 miliardi. Ma il vero problema è che svolgono attività intrecciate, facendo girare somme enormi di denari.
Le grandi banche, per esempio, hanno in casa i maggiori fondi comuni: i fondi di Barclays e JP Morgan sono catalogati da McKinsey tra i primi dieci più grandi investitori del mondo. Contemporaneamente le stesse banche gestiscono i soldi propri, investendoli sul mercato. Ma svolgono anche il servizio di broker, intermediando per conto di clienti le compravendite di azioni, bond o derivati. Questo non permette loro di determinare i prezzi in senso stretto, ma di influire sul cosiddetto spread tra denaro (prezzi in acquisto) e lettera (in vendita): in questo modo possono, nei momenti di crisi, rendere illiquidi (cioè invendibili) determinati titoli.
Le grandi banche poi svolgono attività di prestito titoli: «Con il tasso d’interesse a cui prestano i titoli – osserva un addetto ai lavori – possono facilitare o meno le vendite allo scoperto. Dunque possono, indirettamente, influenzare le scelte degli hedge fund». Ebbene: con tutte queste attività intrecciate, può una banca determinare gli eventi finanziari? Sul mercato in tanti credono di sì. Tanti credono invece che la concorrenza annulli il potere di ogni singolo soggetto. Sta di fatto che, complice la mancanza di trasparenza sui mercati, il dubbio c’è. Il rischio anche.
I grandi fondi
E c’è anche per i grandi fondi. BlackRock è il maggiore. Oltre ad avere in gestione 3.513 miliardi di dollari (di cui però la metà in forma passiva legata ad Etf), il colosso vende a 200 investitori di tutto il mondo (che hanno 9.500 miliardi di attivi) il suo software di gestione dei rischi. Questo software è totalmente asettico: non dice – assicurano da BlackRock – come o dove investire, ma scompone semplicemente i rischi di ogni portafoglio. Eppure, indirettamente, potrebbe influenzare le scelte di allocazione di 9.500 miliardi di dollari: a seconda di come sono scelti i parametri – pur asettici – i 200 investitori potrebbero infatti comportarsi in maniera simile. Potrebbe questo, in certi momenti, determinare movimenti in massa? Da BlackRock lo negano. Ma, in fondo, non è possibile escluderlo.
Anche Pimco, il più grande fondo obbligazionario con 1.300 miliardi di dollari in gestione, nega di avere alcun potere di muovere i mercati. «La controprova – osserva Alessandro Gandolfi, country head in Italia – sta nel fatto che nel 2011 abbiamo puntato contro i T-Bond Usa, ma il mercato si è mosso nella direzione opposta rispetto alla nostra scommessa». Vero. Vero anche, però, che su mercati più piccoli l’impatto di una scelta di Pimco potrebbe essere maggiore. Vero inoltre che di esempi opposti (cioè di scommesse azzeccate da parte dei grandi fondi) ce ne sono a iosa.
L’effetto «pecoroni»
Il potere di questi giganti deriva anche da un altro aspetto: hanno una capacità di trascinamento, dato che quotidianamente pubblicano studi e opinioni. Ogni giorno ci sono azioni che salgono o scendono perché qualche banca d’affari ha raccomandato un «buy» (comprare) o un «sell» (vendere). Le stesse banche, o i grandi fondi, pubblicano anche studi sugli Stati. Report che se prodotti da piccoli istituti non vengono neppure letti, ma quando sono realizzati dai big della finanza producono effetti tangibili. Per un motivo banale: tutti sanno – soprattutto sui mercati azionari – che quei report influenzano le scelte di tanti soggetti. Così in tanti si adeguando.
Questo pone anche un altro interrogativo: i report sono sempre frutto dell’indipendente analisi di esperti, oppure servono per giustificare o rafforzare politiche delle banche? «Mi è capitato – confessa sotto tutela di anonimato al Sole 24 Ore un economista uscito da un istituto italiano – di non poter esprimere in pieno le mie opinioni, perché contrastavano con la politica della banca». «I report sono creati ad uso e consumo degli interessi della banca», osserva un altro addetto ai lavori. Queste sono solo testimonianze, e ovviamente se ne possono raccogliere altre di segno opposto. Ma lasciano comunque un sospetto: che i big della finanza possano muovere masse ingenti di soldi, "pilotando" poi le scelte degli altri – a proprio vantaggio – attraverso i report.
I signori delle pagelle
Veniamo così ai più famosi valutatori del mondo: le agenzie di rating. Loro non investono, non muovono denari. Eppure, con i loro giudizi, influenzano le decisioni di milioni di investitori. Motivo: tanti fondi sono vincolati, nei loro investimenti, dai rating. «Molti fondi hanno nei documenti costitutivi l’imperativo di tenere titoli valutati Tripla A – racconta Annachiara Marcandalli, managing director di Cambridge Associates –. Quando Standard & Poor’s ha declassato gli Stati Uniti, tanti hanno dovuto adeguare gli statuti per non essere costretti a vendere T-Bond».
Il giorno che cambiare gli statuti non sarà più possibile, sui T-Bond partiranno vendite forzate. Stesso discorso per i BTp italiani: se venissero ulteriormente declassati, dall’attuale "BBB+", molti fondi sarebbero costretti a scaricarli. Tutto questo mette nelle mani delle agenzie di rating un enorme potere: ammesso (e non concesso) che i loro giudizi siano tutti impeccabili, il rischio è che in ogni caso le loro parole diventino profezie auto-avveranti. Sommando il loro potere a quello delle grandi banche e dei grandi fondi, tutto questo pone rischi potenziali di stabilità. Anche perché tutti questi soggetti, come si vede nella grafica, sono in gran parte intrecciati da legami azionari l’uno all’altro. Come in una grande ragnatela. In mezzo, però, c’è il mondo reale: cioè tutti noi.