GIANNI RIOTTA, La Stampa 18/3/2012, 18 marzo 2012
Demjanjuk l’orrore di un secolo - Mi porse la mano da vecchio, segnata, tremante e aspettò, guardandomi, se la stringessi o no
Demjanjuk l’orrore di un secolo - Mi porse la mano da vecchio, segnata, tremante e aspettò, guardandomi, se la stringessi o no. Con lui c’erano il figlio John, il genero Ed Nishnic, e un gruppo di avvocati, anche loro in attesa. La mano bianca e grande di John Demjanjuk era accusata di avere torturato, strangolato, massacrato 850.000 ebrei innocenti nei lager nazisti, provvedendo poi alla loro esecuzione col gas. Trent’anni di processi, negli Usa, in Israele e in Germania, verità contrapposte fino all’ultima condanna, l’avevano fiaccato: è morto a 91 anni. Il «caso Demjanjuk», un ucraino immigrato dopo la guerra a Cleveland in Ohio, è storia del ’900, la sua vicenda ha scosso diritto, etica, politica e storia, inducendo Israele a comminare la seconda condanna a morte nella storia del paese, dopo quella inflitta al criminale di guerra Eichmann, salvo fermarsi in extremis, con una sentenza che farà per sempre onore alla giustizia di quel paese: non c’erano prove sufficienti. In Germania, invece, Demjanjuk viene condannato, è lui, per i magistrati, Ivan il Terribile, boia del lager di Sobibor. John Demjanjuk (pronuncia Demianiuk) e la sua famiglia mi raccontarono la loro versione tra Cleveland e Nashville, dove si tennero i processi di estradizione e revoca della cittadinanza Usa. Il genero Ed diceva «Mio suocero era un ucraino poverissimo. L’Urss di Stalin scatenò la carestia in Ucraina, morirono a milioni e quando i tedeschi arrivarono nei villaggi li accolsero da liberatori, offrendo tradizionali doni di pane e sale. L’illusione finì presto, John venne tradotto in campo di prigionia, si unì a una formazione paramilitare per salvarsi, ma non divenne mai una SS. Ivan il Terribile era Ivan Marchenko, un ucraino di cui si son perdute le tracce proprio in Italia, nel 1944 alla Risiera di San Sabba, lager vicino Trieste. Fu visto l’ultima volta in un bordello di Fiume». Ma Demjanjuk, arrivato in America da metalmeccanico, segna sul modulo di immigrazione «Marchenko» alla riga «Cognome materno», in Ucraina è diffuso come Rossi da noi. E’ l’Urss, negli anni estremi della Guerra Fredda, a provocare gli americani con una lista di criminali di guerra ancora liberi, e tra loro Demjanjuk. L’Osi, ufficio che dà tardiva caccia ai nazisti negli Usa, è organismo politico, a lungo, alla Nasa e nell’industria aerospaziale con von Braun, l’anticomunismo ha messo in sordina gli orrori tedeschi. Ora si deve provare che la democrazia Usa è coerente e nelle maglie del processo finisce Demjanjuk. Lo accusano di avere strangolato diecimila innocenti, un superstite ricorda «in una camera a gas una bolla d’aria salvò dalla morte una bimba dodicenne, Ivan mi ordinò di stuprarla e di ammazzarla». Nel percorso verso la fine Ivan il Terribile è Angelo della Morte, con un tubo di metallo infierisce contro gli ebrei a Treblinka, con una spada li mutila, con una frusta rende tormentosi gli ultimi attimi di vita. Come non condannare un mostro simile? Ma la famiglia Demjanjuk nega che il vecchio John, «Dido» così i nipoti chiamano il nonno, sia Ivan il Terribile. Pian piano convincono il deputato Fabricant, poi perfino il candidato presidenziale repubblicano Buchanan. All’Osi fanno sequestrare 22 scatoloni di immondizia, certi di trovar prove della montatura politica. Per giorni li ho visti frugare tra scatolette di pomodori pelati, lettere d’amore di un certo «Huffy» con una «Sally», fino a scoprire vari documenti a favore di Demjanjuk occultati per lanciare il caso politico. In Israele il processo riapre la memoria tragica dell’Olocausto, come mai dall’esecuzione di Eichmann nel 1962. La tessera da SS che inchioderebbe «Ivan il Terribile» ha dei punti di cucitrice che non si adattano ai buchi sulla carta, la foto sembra apposta dopo, forse era l’originale di Marchenko. Marty Lax, sopravvissuto per 9 mesi a Gusen II, Treblinka, offre fondi per la difesa: «Voglio dimostrare che in Israele tutti hanno diritto a un processo giusto». L’avvocato israeliano Yoram Sheftel consiglia ai Demjanjuk di assumere nel collegio di difesa anche il rispettato ex giudice Dov Eitan. Una settimana prima del processo Eitan non regge alle proteste, alle lettere intimidatorie, e si uccide lanciandosi nel vuoto, suicidio senza autopsia e con troppe ombre. Al funerale, un ex deportato a Treblinka lancia acido prussico sul volto di Sheftel, che rischia di restar cieco. Infine la Suprema Corte di Israele decide che, nel processo alla storia consumato da tre Paesi sull’ormai macilento Demjanjuk, non c’è prova assoluta. E, senza cedere alla tentazione di vendetta e neppure alla sacra domanda di giustizia che viene dalle vittime e dalle loro famiglie, ribalta la condanna in primo grado confermando la possibilità che il ricordo dei testimoni si indirizzi contro Marchenko, che sia lui «Ivan il Terribile». Estradato in Germania, Demjanjuk verrà condannato a Monaco per la strage di 28.000 ebrei a Sobibor. La corte non riesce a trovare un solo testimone oculare, la famiglia continua a proclamare l’innocenza di «nonno Dido», fino alla morte in un ospizio peranziani. Conparole nobili, che fanno meditare e commuovono, il giudice Meir Shamgar della Corte Suprema di Israele scrisse, annullando la sentenza contro Demjanjuk a Gerusalemme «Questa è la condotta giusta per noi giudici. Noi non possiamo esaminare i cuori e le menti, abbiamo solo quel che i nostri occhi vedono e leggono. Il caso è chiuso, ma non completo. La completa verità non è prerogativa dei giudici umani». Per questo strinsi la mano indebolita che mi tendeva John Demjanjuk. Non perché convinto della sua innocenza, ma perché persuaso che se la «completa verità» ha eluso testimoni oculari, giudici e storici, figuriamoci noi poveri cronisti, sbattuti a raccontare l’orrore di un secolo col taccuino in mano.