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 2012  marzo 18 Domenica calendario

L’ARTE DI CONSERVARE L’ARTE - C

onosciamo tutti quel double pas che ha tanto intrigato la filosofia estetica e che ciascuno ha provato davanti a un vero capolavoro. Un verso di Solomos, un divano di Magistretti, una bifora di Borgogna, un Giotto, una foto di Doisneau — ma anche il comò di un falegname senza nome del Settecento, il paesaggio che certe strade provinciali custodiscono come un segreto... Tutte agitano due distinti movimenti. Da un lato quello che ci porta ad entrare per capire di più, conoscere di più, a guardare di più, più da vicino, usando il tatto come un’estensione della vista. E dall’altro il senso di dover abbassare lo sguardo, una specie di pudore che ci prende quando fra la nostra anima cartavetrata dalla tecnologia e la realtà non c’è più il piatto mediatore di uno schermo, ma il trovarsi di colpo innanzi alla vertiginosa fragilità della condizione umana.
L’uno e l’altro sono ciò che ci fa tenere in casa un libro, che ci mette in coda per una mostra. O che può scatenare in qualcuno una reazione distruttiva: il furore di chi martella le statue, sfregia i dipinti o assedia un teatro non per ignoranza, ma proprio perché capisce che quella lingua talmente personale da diventare universale e viceversa, non può che essere insopportabile a chi si inimica l’umano.
Attorno a questo doppio passo la modernità ha costruito una industria speciale, che è quella della cultura. Vediamo senza sentirci in colpa pale d’altare strappate ai loro contesti: e spesso è solo per questo che anziché rimpiangerne la distruzione le possiamo vedere. Vediamo migliaia di comparse recitare alla perfezione la parte che lo stereotipo assegna loro (italiani al Moma, giapponesi a Venezia, russi agli Uffizi) con numeri resi tollerabili da uno strato invisibile e corposo di tecnologia.
Perché milioni di visitatori possono essere per un quadro anche peggio delle intemperie: non sono soltanto i milioni di mutande «artistiche» che con gli attributi del David fanno ricchi i bancarellai di mezz’Italia, ma anche i milioni di sguardi curiosi, pudichi, violenti che qualcuno vorrebbe evitare al nostro patrimonio culturale facendone il tesoro privato di un ristretto numero di aristocratici del gusto, che parlano, sparlano, sbagliano come una corte decaduta. A impedire sia il sequestro sia la distruzione dell’opera come atto parlante servono una scienza e un’arte: la scienza di conservare l’arte, l’arte di conservare l’arte.
Perché per mettere un vetro davanti a un quadro, basta un vetraio; per farlo parlare da dietro quel vetro, per incoraggiare chiunque a farsi tentare da quel double pas che dicevo all’inizio serve un’audacia in più. In cui l’Italia — non quella piagnona, l’altra — ha storie bellissime da raccontare: come quella dell’ingegner Nino Goppion, la cui insegna «Vetrine, arredamenti e affini» nel 1952 non doveva lasciar presagire cosa sarebbe accaduto all’impresa che di questo signore porta il nome. Uno che l’aulica prosopopea erudita del Dizionario biografico degli italiani non poté censire (grazie a Dio, il Dbi online può rimediare tali errori) ma che nella Milano del 1956 fece le teche del Civico Museo degli antichi strumenti musicali.
Un primo esempio di quella arte di conservare l’arte nella quale la sua azienda, una generazione dopo, sarebbe diventata leader mondiale senza clamore e senza incentivi, in un rapporto insolito con il mondo della cultura in senso lato e con un Paese che prima di decidere di battersi per far entrare la cultura — almeno nella formula del «cultural heritage» — nel programma Horizon2020 ha dovuto lottare con le sue inerzie, le sue piccole avidità, le pigrizie politiche dalle quali non si guarisce dicendosi «tecnici», ma rimboccandosi (tecnicamente) le maniche.
Perché che una azienda che fa museotecnica d’avanguardia, controlla i microclimi, brevetta cerniere e viti troppo grandi o troppo piccole per la fantasia di un ingegnere normale — ebbene che questa azienda collabori col Politecnico di Milano, dove la ricerca sul bene culturale è una punta avanzata, è normale. Ma che Paola Barocchi, quella che riuscì ad imporre il Vasari perfino alla Rai degli sceneggiati, sia stata uno dei grandi interlocutori di questa impresa è un segnale. O che Carlo Pincin — sì, quello di Marsilio e Machiavelli — possa essere citato come uno degli ispiratori del lavoro di questa bottega dell’arte fuori tangenziale ovest è la cifra di una attenzione all’umanesimo che spiega i successi di Goppion (e tanti insuccessi di chi con quell’eredità non si misura).
Allora è bene sapere, e ripetere, che la protezione e la stabilità della Gioconda al Louvre, la sicurezza dei gioielli della corona d’Inghilterra, i manoscritti di Qumran, il Compianto del Mantegna alla Pinacoteca di Brera, le sale di Santa Maria Novella, del Getty Research Institute, gli impressionisti del Musée d’Orsay, la Jameel Gallery del Victoria and Albert Museum di Londra, il Newseum di Washington, l’atrio della Convenzione al quartier generale della Croce Rossa a Ginevra, l’Ambrosiana, il Museum of Fine Arts di Boston, il Shaanxi History Museum di Xi’an, l’Opera del Duomo di Firenze — ebbene sapere e ripetere che tutti questi hanno in comune la bravura nata in questo capannone di Trezzano sul Naviglio che assomiglia a una grande bottega, con i tavoli dei designer che affacciano sui tavoli e i muletti dei costruttori. Un successo celebrato poche settimana fa all’ambasciata d’Italia a Parigi con la realizzazione delle teche che proteggeranno l’ala di arte islamica del Louvre, nuovo capolavoro dell’intelligenza italiana all’estero.
Una risposta la si può forse azzardare: a differenza di ben più banali prodotti e imprese, Goppion non fa istintivamente parte del vanto italiano proprio perché non nasce in una nicchia deserta del mercato o nella discrezionalità della spesa pubblica, ma è entrata in un mercato globale con le sue gambe e con un legame forte con quella cultura della «unità del sapere» che Galasso ha descritto da par suo su «L’Acropoli». Questa cultura è (sarebbe) la grande chiave con cui parlare al balbettante costituzionalismo arabo, alla sanità cinese, al bisogno di filologia di mezzo mondo: ma bisogna saperla vedere, saperla leggere.
Alberto Melloni