Roberto Benigni, Corriere della Sera 18/03/2012, 18 marzo 2012
DIZIONARIO DI UN PAESE CHE MI FA COMMUOVERE
Grazie, buon giorno signor presidente, Donna Clio, presidenti delle Camere, autorità tutte, sono lieto di essere qua. (...) Volevo venire a cavallo ma non mi è stato permesso come a Sanremo, sarebbe stata un’entrata straordinaria in questo che è il palazzo più bello del mondo, il Quirinale.
Se lei presidente ha bisogno di me, sostituire un corazziere, fare un settennato tecnico, sono a disposizione. (...) Il presidente Amato mi ha chiamato per dirmi: «Potresti venire a leggere delle cose al Quirinale dall’Unità d’Italia alla Liberazione?». Ho detto sì! Quante ore ho? È una patria meravigliosa, piena di eroi. Vado a ricordare i fratelli Bandiera, Ciro Menotti, Enrico Toti che lancia la stampella contro gli austriaci, che allora i nemici si potevano vedere. Oggi il nemico non si vede, è impalpabile, non si può lanciare una stampella contro lo spread. Allora io ho cominciato proprio dall’inizio e vi leggerò la proclamazione del Regno d’Italia sulla Gazzetta Ufficiale numero 3: (...) «Vittorio Emanuele II re di Sardegna di Cipro e di Gerusalemme ecc., il Senato e la Camera dei deputati hanno approvato. Articolo unico: il re Vittorio Emanuele II assume per sé e i suoi successori il titolo di re d’Italia». (...) Torino, addì 17 marzo 1861. Vittorio Emanuele, Cavour, Minghetti, Cassini, Sveggezzi, Fanti, Mamiani, Corsi e Peruzzi». Voi non ci crederete, ma c’era anche la pubblicità nella stessa Gazzetta Ufficiale: «Enrico Orfei, viale Santa Barbera 11, possiede un segreto per far nascere i capelli anche dopo dieci anni di mancanza dei medesimi». I problemi son sempre gli stessi. Anche questo fa parte della storia.
Dunque, i nostri tre padri: Cavour, Mazzini, Garibaldi. In quel periodo eravamo i primi nel mondo, il Risorgimento italiano ha fatto liberare tutta l’Europa oppressa, una cosa straordinaria. Cavour è stato il più grande statista del suo secolo, come ricorderete: «Libera chiesa in libero Stato». Era detto «il grande tessitore», poi a seconda delle contingenze storiche si passa dai grandi tessitori ai grandi tassatori, ma questo è un altro discorso. Cavour scrive alla contessa di Circourt: «Non ho alcuna fiducia nelle dittature e soprattutto nelle dittature civili. Io non mi sono mai sentito debole, se non quando le Camere erano chiuse. D’altra parte non potrei tradire la mia origine, rinnegare i principi di tutta la mia vita: sono figlio della libertà. È ad essa che debbo tutto quel che sono. (...) Io scelgo la via parlamentare, è la più lunga ma è la via più sicura». Camillo Cavour.
Adesso vi leggo un brevissimo estratto di Giuseppe Mazzini. (...) dai Doveri dell’uomo: (...): «Finché uno solo tra i vostri fratelli non è rappresentato dal voto nello sviluppo della vita nazionale, finché uno solo vegeta ineducato tra gli educati, finché uno solo capace e voglioso di lavoro langue per mancanza di lavoro nella miseria, voi non avrete la patria come dovreste averla». (...) Giuseppe Mazzini. (...) «Imagine all the people, you can say…», Garibaldi l’ha detto molto tempo prima di John Lennon. Scrive Garibaldi nel 1860: «(...) Per esempio supponiamo che l’Europa formasse un solo stato — siamo nel 1860 — chi mai penserebbe di disturbarla in casa sua? E in tale supposizione non più eserciti, non più flotte, e gli immensi capitali strappati ai bisogni e alla miseria dei popoli per essere prodigati in servizi di sterminio, sarebbero convertiti a vantaggio del popolo». (...) Giuseppe Garibaldi.
Siamo stati i primi anche a configurare l’Europa come entità politica. Pio II scrisse il De Europa. È la prima volta che la parola Europa viene trovata scritta, politicamente. Pio II, papa Enea Piccolomini del famoso detto: «Quando ero Enea nessun mi conosceva, ora che son Pio tutti mi chiaman Zio». C’era il problema di unire l’Europa per proteggersi dal pericolo turco e adesso il problema dell’Europa è annettere o no la Turchia all’Europa. I problemi davvero sono sempre gli stessi.
La Prima guerra mondiale. C’erano scritti di Emilio Lussu, meravigliosi, Rigoni Stern, Gadda, Ungaretti. Ho scelto una poesia terribile, lancinante, sulla Prima guerra mondiale: si chiama «Voce di vedetta morta», è di Clemente Rebora: ha combattuto nel Carso, fu ferito gravemente. «C’è un corpo in poltiglia / Con crespe di faccia, affiorante / Sul lezzo dell’aria sbranata. / Frode la terra. / Forsennato non piango: / Affar di chi può, e del fango. / Però se ritorni / Tu uomo, di guerra / A chi ignora non dire; / Non dire la cosa, ove l’uomo / E la vita s’intendono ancora. / Ma afferra la donna / Una notte, dopo un gorgo di baci, / Se tornare potrai; / Sòffiale che nulla del mondo / Redimerà ciò ch’è perso / Di noi, i putrefatti di qui; / Stringile il cuore a strozzarla: / E se t’ama, lo capirai nella vita / Più tardi, o giammai».
Nel 1921 abbiamo l’idea straordinaria del colonnello Douhet, che il Parlamento ha votato all’unanimità, di tumulare la salma di un giovane soldato sconosciuto con una cerimonia straordinaria. (...) Ad Aquileia: la signora Maria Bergamas gettò un velo nero che casualmente andò su una bara. Lei era la mamma di un soldato che non si ritrovava e abbiamo fatto il monumento al Milite ignoto, che in origine lo sapete era il Vittoriano, il monumento a Vittorio Emanuele. Ma un soldato ignoto è diventato più grande di un re. Circa 10 anni dopo, l’articolo 18 del Regio decreto del 28 agosto 1931 stabiliva un giuramento di fedeltà al regime fascista per i professori universitari.
Su 1250 professori universitari 14 rifiutarono il giuramento: Ernesto Buonaiuti, Giuseppe Antonio Borgese, Mario Carrara, Gaetano De Sanctis, Giorgio Errera, Giorgio Levi Della Vida, Fabio Luzzatto, Piero Martinetti, Bartolo Nigrisoli, Errico Presutti, Francesco ed Edoardo Ruffini, Lionello Venturi, Vito Volterra. E ci sono altre tre persone che lasciarono volontariamente l’università nel ’25-26 alle prime avvisaglie di ciò che sarebbe avvenuto nel 1931: Silvio Trentini, Gaetano Salvemini e Francesco Saverio Nitti.
Nel 1938 c’è la pagina non dico nera, ma ridicola della nostra storia. Sono le leggi razziali (...). Se ne può parlare solo in maniera grottesca e ridicola, come ha fatto questo popolarissimo poeta romano. Si chiama Trilussa e l’ha scritta nel 1938: «C’avevo un gatto e lo chiamavo Ajò / ma dato ch’era un nome un po’ giudìo / agnedi da un prefetto amico mio / pe’ domannaje se potevo o no: / volevo sta’ tranquillo, tantoppiù / ch’ero disposto de chiamallo Ajù. / «Bisognerà studià», disse er prefetto / «la vera provenienza de la madre» / Dico: la madre è un’angora, ma er padre / era soriano e bazzicava er ghetto / er gatto mio, però, sarebbe nato / tre mesi doppo a casa der Curato. / «Se veramente ciai ’ste prove in mano — me rispose er prefetto — / se fa presto». E detto questo / firmò ’na carta e me lo fece ariano. / «Però — me disse — pe’ tranquillità / è forse mejo che lo chiami Ajà».
Siamo alla Seconda guerra mondiale, una tragedia con milioni di morti. Ma quanti morti ci sono stati perché noi oggi potessimo essere qui: è una cosa commovente. Vi leggo alcuni estratti dalle lettere dei condannati a morte della Resistenza. Sono ragazzi di 18/20 anni: il primo è un elettricista e dice a un amico: «I giudici erano tutti assassini e delinquenti. Chiesero la mia condanna a morte con il sorriso sulle labbra e hanno pronunciato la mia condanna a morte ridendo sguaiatamente come se avessero assistito a una rappresentazione comica. Ti scrivo queste parole 10 ore prima di essere fucilato. Muoio contento di aver servito la causa della libertà fino all’ultimo, addio. Giovanni».
Questo è Domenico Cane, 29 anni, artigiano: «Mamma fra un’ora non sarò più in questo mondo. L’ultimo mio anelito sarà per te, nel tuo nome di mamma vi è tutta la mia vita. Sono sereno e innocente. Del motivo che muoio vai a testa alta e dì pure che il tuo bambino non ha tremato e che è morto per la libertà e ora perdono a tutti, ciao mamma, papà, Stefano, Alberto, ciao a tutti, tutto è pronto sono sereno. Addio mamma, mamma, mamma, mamma» (e qui Benigni si commuove, ndr).
C’è voluta questa morte e tutto questo amore perché potessero essere scritte queste parole. Articolo 1: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Articolo 2, 3, 4, 5, 6... 136, 137, 138, 139. La presente Costituzione è promulgata dal capo provvisorio dello Stato entro cinque giorni dalla sua approvazione da parte dell’Assemblea costituente ed entra in vigore il 1° gennaio 1948. Roma, addì 27 dicembre 1947, il capo provvisorio dello stato Enrico De Nicola. Controfirmano il presidente dell’Assemblea costituente Umberto Terracini, il presidente del Consiglio dei ministri Alcide De Gasperi, visto il Guardasigilli Giuseppe Grassi.
Grazie, viva l’Italia.
Roberto Benigni