Dario Di Vico, Corriere della Sera 18/03/2012, 18 marzo 2012
CONFINDUSTRIA
Una volta di lotta e di governo c’erano i partiti, ora lo sono diventate le università. Ieri mentre in Bocconi si svolgeva l’open day per reclutare i nuovi studenti dell’anno accademico 2012-13, a poco più di un chilometro di distanza dalla mitica via Sarfatti, nel capannone della vecchia Fiera di Milano andava in scena un derby tra professori. Da una parte Mario Monti, presidente e simbolo dell’università milanese nonché premier pro tempore, e dall’altra Francesco Giavazzi, economista di punta dell’ateneo ed editorialista del Corriere della Sera. Ed è stato proprio il suo fondo pubblicato ieri dal nostro giornale («L’emergenza non è finita»), fondo in cui criticava le presunte lentezze del governo su liberalizzazioni e riforma del lavoro, a irritare Monti che, peraltro, al Corriere è quantomeno di casa visto che suoi articoli sono usciti sul quotidiano di via Solferino da trentacinque anni a questa parte. Il premier dal palco ha letto interi brani dell’articolo incriminato e ha accusato il collega di «impazienza e imprecisione».
Dopo una lunga stagione di egemonia tremontiana, la Bocconi dunque è tornata a farla da padrona nel dibattito di politica economica, e così se ai tempi del governo Berlusconi erano le ricorrenti diatribe tra il superministro Giulio e Renato Brunetta ad animare la scena, oggi i deuteragonisti sono per l’appunto Monti e Giavazzi, entrambi figli di via Sarfatti. Il pensiero unico bocconiano non esiste, e le differenze tra i due sono ampie, a cominciare dal temperamento. Il primo è un passista, e quando attacca gli avversari si serve di un humour di stile inglese, raffinato quanto tagliente. L’altro è un polemista nato, e con la sua adrenalina ha rivitalizzato la pubblicistica economica italiana. Monti ama Bruxelles, tifa Europa anche quando dorme e sommando Einaudi ed Erhard ha come stella polare l’economia sociale di mercato, Giavazzi invece vive e insegna per diversi mesi l’anno a Boston, è un sostenitore della distruzione creativa di Schumpeter e stravede per la mobilità del capitalismo americano. Che tra i due si discuta non è quindi così sorprendente e magari siamo solo ai primi atti. Il bello deve ancora venire.
Ma non di solo Giavazzi è vissuta la performance di Monti ieri davanti agli imprenditori. Tutt’altro. Il professore era al suo primo convegno confindustriale e alla tradizionale prova dell’applausometro — cuore di questi appuntamenti — ha stravinto. È stato riempito di battimani nonostante non avesse usato le arti della captatio benevolentiæ, come invece sapeva fare alla perfezione il suo illustre predecessore di Arcore. Riconosciuta l’importanza del sistema delle imprese il premier subito dopo ha detto chiaro e tondo di lavorare per il bene delle nuove generazioni e non delle parti sociali. Di credere nella società aperta e non nei patti neocorporativi. Più sincero di così si muore. Passato qualche minuto Monti ha strappato l’applauso dei piccoli imprenditori denunciando come in passato la politica avesse protetto e finanziato la Fiat, ma subito dopo ha letteralmente gelato la platea ricordandole come in passato avesse acclamato anche chi quelle distorsioni aveva permesso.
Infine il premier non ha avuto remore ad abbinare il suo nome a quello di Sergio Marchionne, non popolarissimo nella Confindustria di oggi e forse neanche in quella di domani. Ha chiesto rispetto per la casa del Lingotto e ha scandito una frase («la Fiat non ha il dovere di guardare solo all’Italia») che farà discutere perché rovescia l’approccio dei governi di Roma in materia di politiche per l’industria. Se un ex premier e oggi ascoltatissimo commentatore come Romano Prodi — che aveva chiesto a Monti di affrontare il dossier Fiat — si caratterizza come «offertista», ovvero parte dallo stato di salute delle aziende e arriva a disegnare una politica industriale governativa, Monti invece è un «domandista». Non sono i singoli gruppi industriali e la loro nazionalità che vanno tutelati, bensì va sviluppata l’ampiezza e l’integrazione del mercato, quale che sia la bandiera che sventola sul pennone degli headquarter. E non a caso come iniziativa di politica industriale non ha annunciato piani di settore o investimenti nella ricerca ma un road show internazionale con l’obiettivo di attrarre investimenti stranieri in Italia. È la politica delle porte girevoli, la Fiat può uscire ma il governo si impegna a portar dentro nuove multinazionali. Per essere stato solo il primo confronto di Monti con gli industriali le novità non sono mancate.
P.s.: Se Francesco Giavazzi avesse potuto ascoltare i passaggi sulla società aperta e la Fiat avrebbe applaudito anche lui.
Dario Di Vico