Silvia Vegetti Finzi, Corriere della Sera 18/03/2012, 18 marzo 2012
LA CREATIVITA’ DEI BIMBI DISTRATTI
Chi tra i genitori non si è mai sentito dire da un insegnante del figlio: «Va bene ma non sta attento»? L’attenzione è così valorizzata socialmente da condannare il suo opposto, la disattenzione, come fosse una colpa o un sintomo. In realtà le due facoltà si intrecciano e si relativizzano e un buon funzionamento dell’apparato psichico deve essere in grado di utilizzare entrambe. La capacità di attenzione fa parte del patrimonio genetico di tutti gli animali: sollecitata da un segnale di pericolo (ad esempio prossimità di un predatore) o da un bisogno vitale (ad esempio ricerca del cibo), induce un atteggiamento di vigilanza che, benché necessario, tende a diminuire con la ripetizione degli stimoli.
Per quanto riguarda il funzionamento mentale, è interessante osservare che l’attenzione è il risultato di una operazione di sottrazione che si attua inibendo le percezioni ritenute irrilevanti, selezionando quelle utili e concentrandosi sullo stimolo essenziale. Nella esperienza umana, dove i casi di allarme sono piuttosto rari, l’attenzione non è tanto connessa alla sopravvivenza quanto all’acculturazione, alle dinamiche di apprendimento, soprattutto scolastiche.
Minima nei più piccoli, si acquista intorno ai sette anni, quando i bambini divengono più discriminativi, meno eccitabili e dispersivi, più capaci di orientare volontariamente la coscienza. Tuttavia l’attenzione prolungata comporta un costo psichico rilevante, misurabile seguendo la curva dell’attenzione che, dopo il raggiungimento di un picco, tende a decrescere, sostituita da una forma di stanchezza, anche emotiva, come cantano i Negramaro nel brano musicale «La distrazione».
La disposizione all’attenzione fa parte del temperamento individuale ma risente del clima culturale e delle motivazioni che la sostengono. Nelle nostre istituzioni scolastiche, basate sulla sequenza insegnamento-apprendimento-valutazione, l’attenzione puntuale costituisce una esigenza fondamentale, a scapito della fantasia, sempre vagante, e degli interessi personali, non programmabili. Ma, come giustamente avverte ora una ricerca americana — realizzata dall’University del Wisconsin — enfatizzando la concentrazione mentale, qualche cosa viene perduto. Ed è la capacità di cogliere ed elaborare più stimoli contemporaneamente, di seguire due percorsi ideativi, di comprendere empaticamente le emozioni proprie e altrui. Pare che le persone più distratte abbiano una miglior memoria operativa e che i «sognatori a occhi aperti» siano più creativi. Se l’intelligenza consiste soprattutto nel realizzare connessioni, sarà potenziata dall’attivazione di più circuiti neuronali e cerebrali. Naturalmente finché sussiste un certo equilibrio tra le due facoltà ed è possibile passare dall’una all’altra; si cade altrimenti nella patologia del delirio o della depressione acuta. Credo infine che l’elogio della distrazione contenga una critica alla nostra società che, come narra Pirandello nella novella omonima, costringe in un’unica maschera o ruolo sociale, il flusso continuo della nostra vita. In questo senso la capacità di «distrarsi» assume anche il significato di sottrarsi alle prescrizioni e alle preoccupazioni quotidiane per acquisire gradi di libertà, di piacere e, talora, di felicità.
Silvia Vegetti Finzi