Luciano Canfora, Corriere della Sera 19/03/2012, 19 marzo 2012
Il protagonista del più celebre romanzo di Arturo Pérez-Reverte, Il club Dumas, l’avventuroso Lucas Corso, si rilassa replicando, a tavolino, la battaglia di Waterloo
Il protagonista del più celebre romanzo di Arturo Pérez-Reverte, Il club Dumas, l’avventuroso Lucas Corso, si rilassa replicando, a tavolino, la battaglia di Waterloo. Corso ogni volta porta l’imperatore alla vittoria, in contrasto con l’esito effettivo dello sventurato evento e conclude ogni volta: «Allonsanfan. Tutti i libri di storia possono andare al diavolo!». Incominciare e concludere con Waterloo un libro intitolato I dieci errori di Napoleone (così Sergio Valzania, Mondadori, pp. 240, 19) è sintomatico di una immortale «Bonaparte-mania», che è incominciata già vivo l’imperatore. Sarebbe appropriato ricordare a questo proposito, oltre alla vasta letteratura che illumina questo fenomeno — dalla Certosa di Parma al Colonnello Chabert, all’impressionante fascinazione che traspare dal manzoniano Cinque maggio —, le convulsioni di personaggi poi assurti a simbolo del liberalismo più «perbene», come Benjamin Constant, attratti però dal ritorno dell’imperatore persino nella tumultuosa parentesi dei Cento giorni. Fu infatti Constant che, nei Cento giorni, pose mano all’«atto costituzionale» col quale Bonaparte, tornato inopinatamente al potere, intendeva dare una facciata costituzionale al suo potere, definito «tirannico» dagli avversari delle più diverse fedi. La centralità, anche umana, di Waterloo è dunque più che comprensibile. E legittima appare la domanda, implicita sia nei «giochi di guerra» di Lucas Corso che nel libro di Valzania: quale sviluppo avrebbe avuto la storia d’Europa se nella «triste pianura» di Waterloo (come la chiamò Victor Hugo in una celebre poesia) l’imperatore avesse vinto la battaglia, rimasta in bilico fino all’ultimo? Non è senza significato che, nei Miserabili, Hugo dedichi un intero libro alla dettagliata descrizione dei luoghi, dei modi e dei tempi di quella battaglia, prendendo a pretesto il fatto che, nell’economia del romanzo, ha un ruolo un atto di sciacallaggio compiuto dall’ignobile Thénardier sui corpi dei caduti a Waterloo. E come Hugo ha sentito il bisogno di inserire nel romanzo un intero libro su Waterloo, così — in polemica frontale con il filobonapartismo dei Miserabili — Lev Tolstoj dedicherà un intero libro di Guerra e pace ad Austerliz col proposito esplicito di dimostrare la inanità dei piani dei grandi generali, Bonaparte incluso, rispetto all’effettivo andamento e all’esito delle battaglie: a partire proprio da quella che fu giudicata (e Valzania lo mette bene in luce) la più splendida delle vittorie napoleoniche. Valzania non è insensibile alla tematica del «tradimento», all’interferenza cioè di questo micidiale fattore, non sempre percepito dagli storici nella sua rilevanza, e considerato piuttosto come un condimento romanzesco della ricerca. Si tratta della questione del mancato arrivo di Grouchy, e della sua colonna nel momento cruciale della battaglia di Waterloo. Non sembra però che nel caso specifico le fonti disponibili consentano di superare il piano del generico sospetto. Il grande errore di Napoleone è, ovviamente, la campagna di Russia. Valzania segnala con molta forza l’apologetica considerazione retrospettiva del Bonaparte: il mio proposito non era di conquistare la Russia. Una considerazione non del tutto chiarificatrice in merito a quell’impresa sommamente impegnativa e risoltasi totalmente in perdita, perché fondata su una carente conoscenza del «pianeta Russia». L’altro fallimento, 130 anni dopo, del rinnovato tentativo — quello hitleriano — di piegare la Russia attraverso un colossale sforzo militare, ha rappresentato la controprova fattuale dell’errore basilare compiuto dal Bonaparte. E si potrebbero elencare anche, cento anni prima di Napoleone, il fallimento dell’attacco svedese contro la Russia, nonché, dopo il 1991, il fallimento del tentativo, verificatosi al termine della «guerra fredda», di declassare la Russia a potenza di seconda o terza fila attraverso lo smembramento dell’Urss attuato da Boris Eltsin d’intesa con la parte più disinvolta ed interventista del vertice statunitense. Il bilancio storico che se ne cava è che esistono Paesi non conquistabili: la Russia, la Cina, gli Stati Uniti. In tutti e tre i casi è la geografia che aiuta a capire. L’analogia tra le due campagne di Russia, quella di Bonaparte e quella di Hitler, fu messa in luce nell’immediato dopoguerra in un libro molto interessante del diplomatico rumeno Gafenco (Preliminari della guerra all’Est), il quale era ambasciatore a Mosca al momento del patto russo-tedesco dell’agosto 1939. Gafenco istituisce un parallelo significativo tra l’accordo di Tilsit (1807) tra Bonaparte e lo zar Alessandro I, sfociato pochi anni dopo nell’attacco francese alla Russia, ed il patto del ’39 sfociato due anni più tardi nell’«operazione Barbarossa» (giugno 1941). Oggi una storiografia revanscista, di cui è protagonista soprattutto il polacco Musial, tende a far passare la tesi, poco fondata, secondo cui Stalin si preparava ad attaccare la Germania e fu solo preceduto da Hitler con l’«operazione Barbarossa». Tutto fa pensare che tale tesi sia inconsistente (la scelta staliniana del ’39 era tutta orientata, all’opposto, nella direzione di una ostinata volontà di restar fuori dalla guerra; e per tutti gli anni Venti e Trenta l’incubo dell’Urss era stato appunto quello del «pericolo di guerra»). Nondimeno resta vero che l’intero periodo che intercorre tra il patto e l’attacco tedesco del giugno ’41 è un periodo di apparente intesa e in realtà di crescente dissenso su tutto, drammaticamente esploso durante la visita di Molotov a Berlino (ottobre 1940). Del tutto analoga la situazione fra Bonaparte e lo zar Alessandro I tra Tilsit e l’invasione del 1812. Valzania si chiede dove e quando Bonaparte ha sbagliato. L’errore, se così può definirsi, consistette invero nell’ottica «dinastica» (piazzare congiunti e subalterni più o meno fidati al vertice dei Paesi satelliti) e nell’incomprensione del fattore nazionale, attizzato e potenziato proprio dall’occupazione francese. Per altro verso la duratura vittoria di Napoleone, che fa passare in secondo piano le reiterate sconfitte militari, fu lo svecchiamento — da lui determinato — della vecchia Europa attraverso i codici (primo tra tutti il codice del commercio), sui quali si è fondata e ha prosperato l’Europa moderna, borghese e aggressiva. Non a caso è col 1830, quando, a seguito di una nuova rivoluzione presto confiscata dalla «Francia dei banchieri», il ramo orleanista sale sul trono di Parigi, che tornano in grande stile sulla scena i quadri medio-alti che avevano costituito l’ossatura dell’impero. A tacere poi della vittoria postuma più imbarazzante, conseguita dal Bonaparte: quella consistente nell’aver lasciato in eredità all’Europa, tanto a destra quanto a sinistra, il fenomeno indomabile del «bonapartismo».