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 2012  marzo 18 Domenica calendario

Dopo un anno di sangue, orrori indicibili, scontri impari tra un esercito potente e una popolazione armata soltanto della propria vastità e disponibilità al sacrificio, assistiamo alla fine della disperata insurrezione siriana

Dopo un anno di sangue, orrori indicibili, scontri impari tra un esercito potente e una popolazione armata soltanto della propria vastità e disponibilità al sacrificio, assistiamo alla fine della disperata insurrezione siriana. Il carnefice Bashar al Assad, epigono minore del defunto presidente Hafiz, ma altrettanto determinato nell’ uso della più ignobile spietatezza, sta infliggendo gli ultimi colpi agli oppositori ormai praticamente inermi e abbandonati a se stessi. Homs, centro della rivolta e postazione di punta dei giornalisti occidentali, è caduta sotto l’accanito bombardamento dell’artiglieria governativa che ne ha raso al suolo i due terzi. Più a Nord, Idlib, tenuta fino all’altroieri in vita da qualche magro rifornimento di viveri e munizioni dalla vicina Turchia, è stata costretta alla resa. I ribelli e i loro familiari braccati ovunque, massacrati, sottoposti a una delle feroci «trenta torture» minuziosamente classificate e descritte dai siriani in esilio. E’ il momento di tirare le somme di questa inaudita catena di violenze, prolungata nel tempo, definita col termine improprio di guerra civile che dovrebbe implicare qualcosa che in Siria non c’è stato: cioè uno scontro, più o meno paritario, anche su un piano organizzativo e militare. L’Armata libera siriana, di cui s’è scritto nei giornali, non ha mai assunto una fisionomia né una consistenza operativa sul terreno. I disertori dell’ esercito, che avrebbero dovuto costituirne il nerbo, si sono dispersi tra fazioni opposte del movimento. Il governo dissidente in esilio, chiamato «Consiglio», lacerato tra sostenitori e negatori dell’utilità di un intervento internazionale, non è riuscito a esprimere un leader credibile né una politica di resistenza unitaria. L’Arabia Saudita e il Qatar strillano, minacciano, ma riluttano a dare alle parole il seguito dei fatti. La stessa esplosione delle due autobombe di ieri, che ha provocato circa trenta morti e un centinaio di feriti a Damasco, sembra testimoniare, più che un episodio da guerra civile, un atto di congedo vendicativo dopo il deperimento della rivolta popolare: il canto del cigno morente inviato, in pretto stile terroristico sunnita, al vittorioso regime minoritario alauita che le maggioranze veteroislamiche del Paese considerano «eretico» e «ateo». Esse certo non dimenticano, anzi, dopo l’attuale riduzione in macerie di Homs, ricordano con maggiore intensità il massacro già inflitto dal padre di Bashar nel 1982 ai fondamentalisti sunniti asserragliati nella roccaforte di Hama. Si parlò allora (anche se non si saprà mai il numero esatto) di quasi cinquantamila vittime sterminate a colpi di cannone e di baionetta in poco più di tre settimane. Una catastrofe, per i Fratelli Musulmani di Siria, che venne condannata come «l’atto singolo più letale perpetrato da un governo arabo contro il suo stesso popolo». Altra considerazione, non meno impropria, è stata quella di voler mettere o, meglio, costringere pure i sanguinosi avvenimenti siriani nel novero delle cosiddette «primavere arabe». Il loro prototipo, rivelatosi poi deludente, si era manifestato con innegabile forza emblematica in una piazza del Cairo; l’insurrezione, in parte laica e giovanile, in parte integralista e antiquata, si svolse in un paradossale intreccio tra la massa degli insorti, i soldati ammutinati e gli uomini in divisa del Palazzo; questi ultimi profittarono dell’occasione per liberarsi anzitutto di un logoro Mubarak e, subito dopo, per sedare la massa protestataria e indisciplinata con ingannevoli promesse di democrazia e libertà. In Libia, sotto la pressione delle masse cirenaiche foraggiate dal Qatar e fornite di armi occidentali, ci fu un riciclo o travaso di dirigenti «pentiti» dal governo in ginocchio di Tripoli al Consiglio di liberazione di Bengasi; l’intervento europeo, privato dell’appoggio americano, si riduceva infine alla caccia all’uomo scatenata all’impazzata dai soli bombardieri francesi e britannici. Nulla di consimile in Siria. Qui la cricca familistica dei governanti alauiti, stretta attorno al presidente Bashar, profondamente radicata nelle gerarchie militari, non ha patito defezioni degne di nota. Il collante mafioso del potere non s’è mai incrinato. Le brigate d’élite, specializzate in operazioni antisommossa, sostenute da forze di polizia e dal più implacabile dei servizi segreti arabi, hanno risposto alla ribellione nelle principali città con una escalation sempre più crudele e di mese in mese sempre più indiscriminata. Le piazze insorgenti, prive di speranza, soprattutto prive di leader e di un comando politico unitario, hanno continuato nonostante tutto a resistere e ad immolarsi disperatamente per dodici mesi. Le ragioni che hanno condannato alla solitudine la rivolta delle folle siriane, tiranneggiate fin dal 1970 da una piccola setta che incide, sì e no, con un dieci per cento sull’intera popolazione, si possono spiegare con motivi diversi quanto complessi. Da un lato la Siria, Paese senza petrolio, non suscita nelle potenze occidentali, già rivali per la spartizione del sottosuolo libico, appetiti tali da spingerle al rischio di un secondo intervento «umanitario» dall’esito più che mai incerto. Da un altro lato si profila il rischio strategico. Era molto più facile, per americani ed europei, prestare negli Anni 90 un soccorso armato alle popolazioni balcaniche minacciate dall’ espansionismo serbo in Bosnia e nel Kosovo. Ma il Medio Oriente, in particolare oggi, è un allarmante bacino esplosivo e Damasco, nel Medio Oriente, occupa una posizione geopolitica assai delicata. La Siria è nel mezzo di un crocevia colmo di tensioni, di contrasti e interessi d’ogni genere. E’ coinvolta da sempre nei torbidi intrighi libanesi, è nemica storica di Israele, è protettrice degli sciiti di Hezbollah ma diffidente dei palestinesi, è ostile alla Turchia e incerta sulle relazioni con il nuovo Iraq dopo la scomparsa dell’odiato Saddam Hussein. Inoltre è legata alla Russia e alla Cina, che seguitano a proteggerla, e resta al tempo stesso attentissima ai consigli politici e all’influsso religioso dell’Iran, laboratorio nucleare in chiave di monopolio sciita. Il codice, che le grandi potenze rispettano e praticano in politica estera, s’ispira in genere al realismo e al calcolo dei possibili passi falsi: interferire nel caos siriano sarebbe stato, per i più, come infilare la mano fra gli esplosivi di una santabarbara mediorientale. Ecco perché gli americani, e i loro più stretti alleati, hanno deciso che la cosa migliore era non fare nulla sul piano militare affidando alle sanzioni economiche e al gelo diplomatico il ruolo punitivo, ma non distruttivo, nei confronti di Bashar al Assad. Nemmeno è da escludere che, non sapendo come e con chi sostituirlo, abbiano pensato che nell’interesse della stabilità regionale fosse meglio lasciarlo per ora al suo posto. Del resto, anche le minoranze religiose ed etniche della Siria, i cristiani, i drusi, i curdi, si sono mantenuti neutrali nei confronti di Bashar e del partito di governo Baath dominato dagli alauiti. Non hanno dato mano agli insorti, ritenendo che, se avessero vinto, avrebbero instaurato una sorta di teocrazia sunnita. L’ultimo degli Assad, che con il collo lungo da rettile raggiunge l’altezza di un metro e novanta, ricordando la figura del padre riflessa da uno specchio deformante, è diventato così un assassino tollerato e quasi intoccabile. Può darsi che il disastro economico, inflitto dalle sanzioni, imponga di per sé un mutamento a medio termine di rotta e di persone al vertice del potere. Può darsi. Intanto non si conosce neppure il numero approssimativo delle vittime della repressione. Si dice diecimila; ma, se il massacro di Hama ne produsse assai di più in tre settimane, quale potrà essere mai la cifra, probabilmente altissima, dei lutti provocati dai massacri di un anno intero?