Franco La Cecla, D - la Repubblica 17/03/2012, 17 marzo 2012
LO SLUM? UNO SPORCO BUSINESS
Se atterrate a Mumbai, Bombay, come buona parte della gente qui la chiama ancora, durante il giorno non potete non vederla: una gigantesca distesa di lamiere, fumi, polvere, cartoni, ferri, che per buoni cinque minuti precede la pista d’atterraggio. I più informati vi diranno che si tratta di Dharavi, lo slum del film The Millionaire di Danny Boyle (Slumdog Millionaire in lingua originale). In realtà si tratta di una fascia di diversi slum che si susseguono al centro della penisola tra i due mari che costituisce questa metropoli di 38 milioni di abitanti. Bombay, la Bom-Baia, fondata dai portoghesi come porto per l’accesso all’Oriente, era costituita da sette isole in una laguna dove le basse maree aprivano vasti territori di fango e di mangrovie. La città colmò rapidamente gli spazi tra le isole e le lagune intorno. E divenne ben presto un polo di attrazione con le sue fabbriche di cotone, il porto, i traffici. Con gli inglesi si ampliò ancor di più, diventando una delle città più ricche dell’Asia, e con l’Indipendenza divenne la vera capitale della nuova India, la "gold city", il sogno agognato da tutti coloro che volevano sfuggire alle condizioni critiche della campagne e degli Stati più poveri. E oggi continua in questa vocazione.
Migliaia di persone si aggiungono ogni settimana alla già densissima metropoli. È per questo che il sessanta per cento della città è uno slum, perché la gente che arriva è disposta a installarsi in qualunque luogo, nel fango, accanto alle rotaie della ferrovia, sui marciapiedi, sotto i ponti e i cavalcavia, nei terreni che nessuno vuole perché inquinati dalle industrie, tra le discariche e il letame. Dharavi è lo slum che ha fatto "fortuna" al cinema, quello che viene usato da ogni regista indiano o straniero quando vuole raccontare il mondo indiano "dell’underworld", dei bassifondi, dei traffici illegali, della violenza interetnica. Se andate nella parte buona della città, a Marine Drive, nei ristoranti accanto al menu viene allegato un foglio che annuncia in maniera trionfalistica: "Dharavi, il più grande slum di tutta l’Asia: se volete solidarizzare con i bambini di Dharavi, questo è il conto corrente su cui potete versare un’offerta". E se volete girare lo slum ci sono dei tour speciali chiamati "Reality Tour" che vi ci portano per due ore, o per un’intera giornata, in un’auto con aria condizionata o a piedi, a patto che promettiate di non fare foto.
Se girate un po’ per l’immensa metropoli, tuttavia, vi passa la voglia di iscrivervi ai "Reality Tour". Tutta la città è un Reality Tour, perché la gente ci vive ammassata, in case al limite del crollo, attendata nella zona della City degli affari, Fort, nei mercati islamici di Byculla, come intorno ai nuovi grattacieli di Nariman Point, Bandra, Andheri. Andate a visitare gli Studios di Bollywood e sono tutti circondati da baracche, tende, cartoni e teli di plastica. Può capitare di assistere all’insediamento di una nuova famiglia su un marciapiede rimasto libero. Prima si attaccano delle cortine ai pali della luce. Poi si cominciano a inventare i giacigli e la cucina. Ma spesso i nuovi arrivati, come quelli che sono arrivati qui un anno fa, continuano a dormire per terra, a mangiare per terra, a lavarsi accucciati sul marciapiede e fare i propri bisogni dietro qualche riparo o dietro niente.
Ogni giorno, soprattutto in questi tempi di elezioni comunali e statali, i giornali riportano l’andamento delle trattative tra Comune e privati per "l’improving" di Dharavi. Le ultime notizie dicono che è stato approvato un piano che dà alle imprese immobiliari facoltà di servirsi dei fondi per "il miglioramento" dello slum, costruendovi fino a quattordici piani di edifici, a patto di fornire i servizi e le infrastrutture. In cambio i costruttori avranno altre aree più appetibili all’esterno della città. Ma in realtà sono proprio gli slum a essere le aree più appetibili: centralissime - Dharavi è servita dalle due più importanti linee ferroviarie - i prezzi di questi terreni oscillano tra i 10mila e i 20mila euro al metro quadrato. In più sono una miniera d’oro perché sugli slum, almeno su quelli famosi, c’è una pioggia di denari delle organizzazioni umanitarie, ong e fondazioni internazionali varie. Ma questa è una visione dall’esterno: per sentire come la pensano gli abitanti di Dharavi bisogna ascoltare i social workers che vi lavorano da anni, come Matias Echanove e Rahul Srivastava, architetto svizzero il primo, urbanista indiano il secondo, ideatori di Urbz, un gruppo di architetti, urbanisti, sociologi e ambientalisti provenienti da tutto il mondo che svolge ricerca sul campo e offre consulenze, con metodi innovativi di sviluppo sostenibile (ma sono anche gli ideatori dei Reality Tour che ho evitato). In un articolo sul New York Times hanno raccontato la rabbia degli abitanti di Dharavi di fronte al film Slumdog Millionaire e non per la parola "slum-dog", cane da slum, ma per la parola slum. Dharavi, per chi ci abita, sostengono, non è uno slum, ma un quartiere modello che produce ogni anno 700 milioni di dollari, ha una densità di 300mila persone per chilometro quadrato, ma nessuno sta con le mani in mano, qui si ricicla - in maniera differenziata - buona parte dell’immondizia della città, si conciano pelli e si rifornisce di manufatti, cibo, biancheria pulita il resto della città. Dentro Dharavi ci sono banche, sportelli bancomat e una rete di relazioni fitta che ricostruisce il tessuto dei villaggi da cui buona parte di questi nuovi e vecchi insediati arriva.
Dello stesso avviso sono personaggi come Suketu Mehta, l’autore del bellissimo Maximum City e Gyan Prakash, storico, di Bombay pure lui, che insegna per una parte dell’anno a Princeton ed è autore di Mumbay Fables, un libro che uscirà anche in Italia il 20 maggio per Bruno Mondadori con il titolo Le città color zafferano. Entrambi dicono che il modello Dharavi (e gli slum di Bombay in generale) sono una risposta al bisogno di abitare, ma anche e soprattutto a quello di lavorare nella e per la città che nessun programma pubblico potrebbe o ha mai potuto inventare. Qui è la gente che si è organizzata e ha creato una maniera di vivere unica: la mattina i giacigli, le brande, i materassi vengono piegati e negli stessi spazi si aprono officine, laboratori, luoghi di lavoro. Ogni progetto di allontanamento e di "ripulitura" di Bombay dagli slum non farebbe che riproporre il problema altrove, dice Gyan Prakash: "Possibile che gli architetti non capiscano che le città sono fatte di relazioni e non di edifici? Se distruggi le prime, non rimane nulla".
Ha ragione, è vero che in una situazione folle - ma condizioni simili si trovano in tutte le grandi città del mondo - gli slum sono la soluzione trovata dai poveri. Proprio perché i poveri non devono pagare un’abitazione, possono concentrarsi sull’invenzione di attività che li sostenti, ma che sono anche utili alla città: se Dharavi sparisse domani ci sarebbe a Bombay un crollo economico. Però bisogna andarci, con o senza i Reality Tour (che pure sono utili, visto che sono serviti a costruire scuole per lo slum). Così mi imbarco nella metropolitana fino alla stazione di Bandra e lì, in mezzo a una folla vociante e immensa, monto sul "flyover", il lunghissimo cavalcavia che connette le due stazioni ferroviarie tra cui si apre Dharavi e gli altri slum. Sotto di me una distesa ininterrotta di lamiere, a uno o due piani, ogni tanto uno spazio di vicoli che consentono a due persone di non urtarsi appena, un’umanità brulicante, bambini nel fango - ma il fango, la polvere, la precarietà, la promiscuità di spazi, quest’uomo che dorme in una specie di scatola di latta che è una casa, queste bambine che lavano i panni addossate a enormi tubi, il misto tra palude, spazi di risulta della ferrovia, tutto questo certo sa di un’eroica resistenza umana, ma anche di qualcosa al limite dello scoppio di una pestilenza. Eppure i bambini, ma anche i grandi, giocano, i bambini con le monete lanciate contro un muro, i grandi a "curran", una specie di biliardo che si fa con le fiches. La cosa impressionante è come in questo che appare come una bolgia infernale se vi fermate su cosa accade davanti alle case, nei singoli spazi, vi accorgete che c’è una capacità impressionante della gente di fare "normalmente" la propria vita.
Ovviamente non tutti sono dello stesso avviso di coloro che difendono gli slum. Katherine Boo ha appena scritto un libro, Behind the Beautiful Forevers (il titolo si riferisce a un pannello che copre parte dell’area dello slum e che pubblicizza delle mattonelle italiane che si chiamano Beautiful Forevers) che racconta il suo lavoro di anni ad Annawadi, uno slum vicino a Dharavi. Katherine Boo racconta il prezzo da pagare perché queste formichine laboriose producano ricchezza negli slum: malattie, violenza, infanticidi, menomazioni fisiche, morire su un marciapiede senza che nessuno vi soccorra. Questa è la nuova povertà globalizzata, quella che ha tirato fuori 100 milioni di indiani appena sopra il limite di povertà, ma a loro spese, facendoli vivere in un inferno urbano di proporzioni inimmaginabili. Basta vivere un po’ in uno slum (col privilegio di non doverci restare) per decidere se effettivamente è una condizione umana o meno: certo è molto meglio che morire di fame in una campagna indiana uccisi dalle politiche agricole dell’Fmi, ma si tratta comunque di condizioni subumane. E soprattutto, a essere atroce è la pericolosa filosofia della nuova povertà come risorsa. Una sera mi sono trovato a parlare con un produttore di film di Bollywood e a raccontargli che stavo facendo un lavoro sugli slum di Bombay. Lui, simpatico, progressista, colto, aperto, mi ha detto che poteva darmi una mano: ne aveva appena comprato uno. Ed è vero, gli slum, insieme alle "social issues" che rappresentano sono l’occasione per la classe media di investire nella povertà per utilizzare i soldi pubblici e quelli delle fondazioni internazionali. La povertà è una risorsa molto più promettente della speculazione edilizia e dell’industria in crisi. È perfino meglio dei movimenti finanziari e della Borsa. Saranno i poveri a salvare il mondo e l’economia: a spese loro.