Erri De Luca, Avvenire 18/03/2012, 18 marzo 2012
Yiddish. Cosa resta dopo la tragedia del ’900? - Nell’aprile del ’93 si celebrò a Varsavia una ricorrenza: cinquanta anni trascorsi dalla rivolta del ghetto ebraico contro le truppe tedesche
Yiddish. Cosa resta dopo la tragedia del ’900? - Nell’aprile del ’93 si celebrò a Varsavia una ricorrenza: cinquanta anni trascorsi dalla rivolta del ghetto ebraico contro le truppe tedesche. La Polonia fu occupata dalla Germania nel ’39 e lasciata solo nel ’45 sotto l’avanzata dell’esercito russo. La Polonia ha il record di durata dell’oppressione tedesca, tra le nazioni europee della seconda guerra mondiale, e il record dei più efficienti campi di annientamento (Vernichtungslager). Sul suo territorio i tedeschi costruirono Auschwitz-Birkenau presso Cracovia, Treblinka presso Varsavia, poi Belzec, Sobibor e altri ancora. Nella primavera del ’43 il ghetto di Varsavia è quasi svuotato. Tre quarti dei quattrocentomila ebrei stipati nel perimetro sono già stati bruciati a Treblinka. Resta uno stremato rimasuglio e proprio quello organizza una rivolta armata, la prima in una città occupata dai tedeschi. Nei giorni della Pasqua ebraica, aprile ’43, le truppe naziste entravano in forze per distruggere ghetto e resistenza. Ci riuscirono solo un mese dopo. Il comandante dell’insurrezione, il ventenne Mordecai Anielewicz, si suicidò al termine dei combattimenti. Nell’aprile di cinquanta anni dopo andai a Varsavia. Conoscevo la storia della distruzione degli ebrei d’Europa. Era stata contemporanea della giovinezza dei miei genitori. La dannazione di quella guerra aveva perseguitato la loro età nel tempo in cui si deve costruire il futuro, costringendoli invece a lottare per non farsi cancellare, per vivere un giorno di più della guerra, durare un giorno in più per rivedere la pace. Auschwitz-Birkenau è pronuncia tedesca di quei luoghi. Oshwieshim-Brjezinska è la pronuncia di quelli che ci morirono dentro a vagonate, a treni di vite incenerite. Oshwieshim e Brjezinska è la pronuncia yiddish, lingua strappata da milioni di bocche senza nemmeno il diritto di lasciare una propria parola a lapide della sua distruzione. Quei due campi distanti pochi chilometri tra loro stanno nelle quiete pianure dell’Alta Slesia. Oltre agli ebrei, anche polacchi, russi e zingari finirono in fumo sparso su quegli ettari piatti. Per chi ha fede e crede nel possesso di un’anima, l’aria sopra quei campi fu il più vasto portone d’ingresso ai cieli, passaggio per oltre un milione di anime. I russi, che per primi forzarono l’ingresso, non sapevano di entrare nella massima cattedrale dell’infamia. Al vento si muovevano i brandelli di ferro e di cemento dei forni fatti esplodere dai tedeschi in fuga nel miserabile tentativo di cancellare prove. I russi trovarono i magazzini stracolmi di scarpe, di occhiali e tonnellate di capelli ben impacchettati, anche quelli predati ai corpi prima di annientarli. Trovarono quello che era stato commesso da un efficiente popolo moderno al centro d’Europa, che aveva democraticamente eletto a capo del governo il peggiore boia dell’umanità. Le democrazie sanno suicidarsi. I russi hanno sofferto le maggiori perdite di quella guerra. Nel gennaio del ’45 stavano vincendo. Spettava a loro di sfondare il cancello di Birkenau-Brjezinska. Da passante al loro seguito di tanti anni dopo, ho camminato per un lungo giorno da solo tra le baracche, i binari, i resti dei cinque altiforni, le scalinate che portavano in discesa ai cameroni delle finte docce. Ho disceso quei gradini. Intorno soffiava un vento silenzioso, il fiato di una moltitudine di assenti. Entrando nelle baracche dei tavolacci a castello ho tirato nelle narici l’umido che hanno lasciato, che resta indelebile dal suolo e dal legno. Tornai da lì con l’impegno d’imparare lo yiddish, la lingua distrutta. È l’unica riparazione permessa a chi è venuto dopo, la sua possibilità di dare torto alla storia e dirle: non sei riuscita a cancellarla tutta, quella lingua, che a bisbigli resuscita. Impararla è stato piantare un albero. Leggendola mi siedo all’ombra dello yiddish tagliato ch’era verde, e sento muovere le sue foglie. «Terra non coprirai il mio sangue», il grido di Giobbe allargo del capitolo sedici, verso diciotto, del suo dolore/libro, oggi sta inciso sul marmo della Umschlagplatz, lo spiazzo sul bordo del ghetto di Varsavia dove i rastrellati erano costretti a salire sul treno per Treblinka. «Terra non coprirai il mio sangue»: la richiesta di Giobbe è stata accolta. A Birkenau-Brjezinska la terra è scoperchiata.