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 2012  marzo 16 Venerdì calendario

ANCHE I POETI SI ACCOPPIANO - «CIASCUNO è

sposato con il proprio mestiere, noi siamo l’uno l’amante dell’altra»: così la scrittrice Chiara Gamberale (in libreria con L’amore quando c’era e con la ristampa de Le luci nelle case degli altri, Mondadori) parla del rapporto con il marito e collega Emanuele Trevi, conosciuto 10 anni fa, a 25 anni: «Ero molto giovane: è indubbio che abbia bevuto alla fonte del suo talento. È stato il mio mentore». Questa gratitudine spiazza: il gioco delle coppie, nella storia della letteratura, è più spesso faccenda da bari, competizione meschina, gara di egocentrismi. Cosa unisce uno scrittore a una scrittrice, a parte le affinità elettive e i feromoni? Invidia o sano antagonismo? Sodalizio o opportunismo? «La gelosia è naturale», spiega Trevi, anche lui in libreria con Qualcosa di scritto (Ponte alle Grazie), ma allergico alla concorrenza: «Chiara è molto più giovane e carina di me! E poi l’amore è stupido: si sta bene insieme per grazia divina, non esiste il “venirsi incontro”». E lei: «Sembra paradossale, ma a unirci è l’accettazione delle rispettive solitudini: sappiamo lasciare all’altro la sua stanza tutta per sé», quella di cui non disponeva la famigerata «sorella di Shakespeare». ANCHE NELLA liaison letteraria è quasi sempre la donna a rimetterci: nei migliori dei casi è ridotta a «moglie, amante, amica di», altre volte è semplice comparsa, e la sua professionalità e caratura intellettuale sono scarsamente riconosciute. Peloso femminismo? «La qualità di un libro è oggettiva», ribatte Trevi. «Una può essere pure la moglie di Omero, ma la raccomandazione è effimera, può garantirti un’ospitata in tv, magari un romanzo, ma poi? Il talento non te lo dà nessuno».
«“Moglie di” è un’etichetta meschina, un pericolo che noi donne corriamo non solo in questa professione. Io ho pure un padre importante: sono vaccinata a questo tipo di accuse ...», confessa Gamberale. Anche Kiran Desai è “figlia di” (Anita) e “fidanzata di” (Orhan Pamuk), così come Dacia Maraini ha avuto un padre e un compagno importanti, Fosco e Alberto: «Vengo da una famiglia di scrittori, scrivo da quando ho 13 anni. Moravia l’ho conosciuto dopo il mio primo romanzo: non mi sono mai sentita la sua musa». Identica reazione di Maria Luisa Spaziani: «Musa? Ma questa è una definizione giornalistica! Su me e Montale hanno scritto di tutto, dato definizioni a effetto: so bene come funziona il mestiere del titolista!». Come Maraini, nomina sempre l’amico per cognome: «Tra di noi non c’è mai stata competizione: Montale era già un grandissimo, entrato nelle antologie scolastiche. Io ero stimata ma senza seguaci, e comunque formata quando l’ho incontrato. La nostra è stata un’amicizia molto affettuosa, nonché un rapporto di collaborazione: spesso scrivevamo insieme, i ruoli erano intercambiabili... Tra di noi non c’è mai stato un ritmo familiare e borghese. Lui doveva essere un poeta e io dovevo essere un poeta. Ci siamo trovati, ma ognuno ha fatto la sua vita, ha pensato ai fatti suoi».
L’amore tra poeti è il più inflazionato: dalla coppia di ieri Campana – Aleramo («Dino, ho baciato tanto quelle bozze e quella traduzione, con la tua epigrafe e il tuo poscritto») a quella di oggi Raboni – Valduga, che ha appena terminato un Libro delle laudi (Einaudi) per «Giovanni, infinitamente amato». E che dire della sedicenne Alda Merini, infatuatasi dello sposato Giorgio Manganelli? Erano «due monaci malandrini/ nel salace convento della scrittura». E che fine ha fatto Cesare Pavese che, «perduto nella pioggia, sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina»? Si è consolato tra le braccia di una scrittrice: quella Garufi con cui ha abbozzato Fuoco grande, la Leucò degli omonimi Dialoghi. Olschki ha da poco pubblicato il loro carteggio: «Cara Bianca, che cosa pretendi? Che ci coccoliamo come due conigli ? Io trovo molto bello questo maltrattarci insaziabile; è sincero dopotutto e producente. Ciascuno ha i suoi sistemi - noi siamo una bellissima coppia discorde, e il sesso - che dopotutto esiste - si sfoga come può». Certo è andata meglio ai meno famosi Paola Masino e Massimo Bontempelli o Anna Banti e Roberto Longhi: poca celebrità, più solidità.
Tuttavia, al di là di questi case history, gli scrittori italiani si accoppiano tra loro meno frequentemente dei colleghi americani, «per tre ragioni, mi sembra», dice Camilla Baresani, autrice e osservatrice dei costumi letterari: «Nel mondo anglosassone tutti gli aspiranti romanzieri frequentano i college e i corsi di scrittura creativa: lì si conoscono e si innamorano, così come nelle ledig house, le case di ospitalità per giovani artisti. Nascono amori pazzeschi... Ma il vero motivo è di natura economica: in America gli scrittori guadagnano bene, possono permettersi di stare insieme; da noi invece vengono pagati troppo poco, almeno uno dei due deve fare un lavoro serio!». Ricchi, belli e famosi: Paul Auster e Siri Hustvedt sono gli sposi più glamour della narrativa contemporanea. Anche oltreoceano i rumors si sprecano: lei, biondissima e bellissima, non poteva non attirare la maldicenza. E a parte qualche eccezione come Zadie Smith, molto più blasonata del marito Nick Laird (pure Wikipedia Italia dedica a lei una lusinghiera voce, a lui niente), le donne sono dovunque ottimi parafulmini, vedi la vicenda di Ayelet Waldman, moglie e collega del belloccio Michael Chabon. Dopo aver scritto sul “New York Times” che amava più il marito dei quattro figli, si è attirata gli insulti di mezzo mondo, vendicandosi intelligentemente con il libello-confessione Sono una cattiva mamma (Rizzoli). Poteva andarle peggio, finire tra i dannati Ted Hughes e Sylvia Plath, all’inferno con Rimbaud e Verlaine, nei triangoli sadici di Henry Miller e Anaïs Nin, di Sartre e de Beauvoir, oppure in compagnia di Zelda e Francis Scott Fitzgerald, che nelle loro più tenere notti andavano insieme al bordello. Anche Nicole Krauss, stimata scrittrice nonché moglie di Jonathan Safran Foer, ha ricevuto molti più attacchi e critiche del marito, nonostante sia più vecchia, scafata e approdata al successo ben prima di lui. Icastiche le rispettive dediche ai romanzi: lei, «a Jonathan, la mia vita»; lui, «a Nicole, la mia idea di bellezza ». Persino gli algidi mitteleuropei si sarebbero sbilancia-ti di più – vedi Paul Celan con Ingeborg Bachmann, Rilke con Lou von Salomé, Kafka con Milena Jesenská – o forse era solo una battuta di inarrivabile ironia.
La più caustica rimane però Kathryn Chetkovich, che sull’invidia per il fidanzato Jonathan Franzen ci ha scritto un racconto su “Granta”. Settembre 2001, una settimana prima del fatidico 9/11; Franzen pubblica Le correzioni: è un successo clamoroso, poi premiato con il National Book Award. Crollate le Torri, Kathryn tira un sospiro di sollievo: «Adesso la smetteranno di parlare di quel dannatissimo libro». Ma l’oblio per Franzen e il suo romanzo dura poco: dopo due giorni lui torna a rilasciare interviste, lei a rosicare. Fare del livore un’opera di narrativa non è comunque da tutti: «Questa storia parla di due scrittori. È una storia, in altre parole, d’invidia... Qualcuno che amo ha ottenuto tutto quello che desidero io, e probabilmente lo avrà sempre. Cosa ci posso fare? Tanto vale mettermi al lavoro». Ma per farsi invidiare dal compagno, le converrebbe seguire il proficuo metodo de Beauvoir: anche quando ci fa l’amore insieme, prenda appunti!