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 2012  marzo 16 Venerdì calendario

UN AMORE ANARCHICO

La passione. In fondo agli occhi di Maria Jatosti c’è qualcosa che brucia senza consumarsi. Che brilla intatta a cinquant’anni da La vita agra di Luciano Bianciardi (1962), e a trentacinque da Tutto d’un fiato (appena ripubblicato da Stampa Alternativa), in cui Maria rievoca la sua ventennale relazione con lo scrittore grossetano. Passione per la politica, per la cultura, per gli amori passati e quelli presenti. Per la vita. Oggi Maria ha 83 anni. Un compagno più giovane di venti. Poeta. Quaranta metri quadri al Tuscolano dove ha trovato un posto per tutto. Nell’alveare ricorda e scrive. Sul tavolo il computer è acceso. I libri sono ovunque. I capolavori tradotti a Milano da ragazza quando per tutti era solo Maria della Garbatella e quelli scritti dopo, ripensando a quando lei e Luciano litigavano su quanto fosse reazionario Balzac per poi ricominciare a ridere e soffrire al Bar Jamaica. Bisogna venire qui per capire qualcosa dei tormenti di Bianciardi. Il grossetano che voltò le spalle al successo perché sognava di essere un dinamitardo. Il diverso che non si identificò fino a morirne, nel ’71. Maria la bionda lo conosceva bene. “Di Luciano parlai per la prima volta pubblicamente con Pino Corrias. Non so se fu per tenerezza o per egoismo, ma all’improvviso, per liberarmi dalle sofferenze buttai fuori tutto”.
Nacque la biografia postuma di Bianciardi.
Un bellissimo libro. Il racconto più vero su Luciano, ma che non tutti hanno apprezzato.
Chi non l’ha apprezzato?
La figlia di Bianciardi ad esempio, Luciana. Una ragazza che con il padre ha avuto molti problemi.
Bianciardi era un uomo difficile?
Nell’ultimo periodo stava andando a puttane. Lo divorava il senso di colpa. Pasticche, solitudine, alcol. Teneva la bottiglia sul comodino. Era stato un padre assente, ma con nostro figlio Marcellino diventò anche violento. Comunque Luciano si è ucciso scientificamente. Era fragilissimo, voleva suicidarsi tutti i giorni. Ogni volta che saliva in cima a un palazzo, diceva: “Mi butto”.
Vi conosceste presto.
Nel ’50, io lavoravo con la Cgil. Un colpo di fulmine, ma poi lui era tornato in famiglia, aveva moglie e un figlio. Ma quattro anni dopo, in seguito al trauma della tragedia di Ribolla, sentì il bisogno di rivedermi. Esplose un pozzo. Morirono 43 ragazzi. Operai, anarchici, minatori. Tutti amici suoi. Fanfani cacciato dal funerale, Di Vittorio in lacrime. Luciano mi telefonò. Ci vedemmo a Milano. Non ci lasciammo più.
A Milano passaste più di dieci anni. Dalla gavetta al
trionfo della Vita agra.
Glielo dicevo sempre: “Che cazzo stai a fare a Grosseto?”. Era sprecato. Viveva da provinciale felice delle sue contraddizioni. Il sabato al casino, la domenica a messa con la moglie. Dirigeva la biblioteca e il circolo del cinema. Si era inventato il “bibliobus” e con Cassola girava per le campagne leggendo classici agli analfabeti.
Bianciardi scrisse: “Il successo è solo il participio presente del verbo succedere”.
Ma all’inizio se lo godette, eccome.
Montanelli l’avrebbe voluto al Corriere.
Lui ci sarebbe anche andato. Indro gli piaceva e fu combattuto. La sola recensione della Vita agra a sua firma impennò le vendite di 5.000 copie in un giorno.
E allora?
Fui io a dirgli: non ci andare al Corriere! Allora ero settaria, ideologica, trinariciuta. Per me Montanelli era il nemico, il diavolo; anche se dopo ho capito che in Luciano vedeva un altro sé. Il ragazzo di campagna che giocava col fuoco, l’anarchico fino in fondo che sarebbe voluto diventare.
Come era l’amore tra un
anarchico e una comunista?
Litigavamo di continuo, su tutto. Lui era insofferente a ogni forma di organizzazione e burocrazia, io non amavo il mondo che rideva per la goffaggine da buttero di Luciano e poi lo blandiva come scrittore bohemien. Montanelli non c’entrava, ma tra le donne, le notti a far tardi e l’insensatezza dei salotti di Milano non ne potevo più. Così mi trasferii a Rapallo con nostro figlio e per un po’, costrinsi Luciano al pendolarismo.
Le donne, diceva.
Bastava che una portasse la gonna e la castigava. Non si è salvata nessuna. Quando ci rimanevo male gli amici me lo dicevano: “Maria, ma che non lo sapevi?” e io “Lo immaginavo, ma così è troppo”.
Piaceva molto?
Prima di avere successo no, ma dopo sì, da pazzi. Le ammiratrici venivano a casa e lui era capace di scoparle con me nella stanza accanto. Grande scopatore, almeno dal punto di vista quantitativo... Era maschilista, gelosissimo, anche retroattiva-mente.
Ne aveva ragione?
Qualcuna. Entrambi eravamo molto amici del poeta Vittorio Sereni, allora direttore editoriale della Mondadori. Ma la mia non era una semplice amicizia...
Un’avventura?
Una relazione clandestina lunga 15 anni.
Bianciardi se ne rese conto?
Fece finta di nulla, ma forse qualcosa sospettava, si tradì graffiando Vittorio nella Vita agra. Scrisse che anche i poeti, quando sono davanti alla scrivania come uomini d’azienda, diventano belluini. Era un’annotazione un po’ gratuita e Sereni se la prese. Vittorio era sposato. Fu una relazione molto segreta e molto platonica... insomma...
Insomma?
Insomma... così così.
Con gli altri scrittori che rapporto aveva?
Narratori ne leggeva pochi, a parte Gadda, che era il suo dio. Non credo amasse Pasolini, ma se li rileggi oggi capisci una lungimiranza di vedute, una cupezza ragionata che li accomuna. Il boom era una fregatura e lo intuirono entrambi.
Con la politica?
Odiava i politicanti. Trombadori lo segnalò a Giangiacomo Feltrinelli quando nacque la casa editrice e all’epoca del Lavoro culturale lo convocò Pajetta. Alle Botteghe Oscure Luciano non voleva andare. Lo portai per mano, per me Pajetta era un idolo. Lui uscì deluso, stravolto, l’uomo del Pci gli aveva fatto la lezioncina.
Anche lei non aveva un carattere facile.
Ero dura. In sezione, quando mi vedevano, le compagne si lamentavano: “A riecchela questa che parla de cultura pure ar cesso”.
L’ultimo Bianciardi fu straziante?
A Rapallo, dove alla fine si era deciso a seguirci, non era felice. Senza Maria non ci sapeva stare, ma la Liguria era una provincia senza punti di riferimento. Una dimensione aliena. Quando mi accorsi che si stava ammazzando lo riportai a Milano, ma era troppo tardi.
Perché tardi?
Troppo vino, troppi barbiturici. In ospedale me lo dissero: “Quest’uomo, se non avesse avuto un cuore da cavallo sarebbe morto da anni”. Eppure fino all’ultimo ha continuato a scrivere cose bellissime, come Aprire il fuoco che è del ’69. Il guizzo lo aveva ancora.
Dal ’78 è tornata a vivere a
Roma, ma le capita di sentire la nostalgia di Milano?
Milano è legata alla storia più tremenda della mia vita e resta la città che amo di più. Non la zona di Brera, però. La prima volta che tornai in via Solferino, non l’ho riconosciuta. Era tutta rifatta, con queste casine ridi-pinte e vendute agli americani. E poi la moda, i vip, la Milano di Craxi e di Pillitteri... Qualcuno, leggendo La vita agra, avrebbe potuto chiedersi: come avrà fatto Bianciardi a inventarsi tutto questo?