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 2012  marzo 16 Venerdì calendario

LA UNO BIANCA: UNA STORIA DI MAFIA

Pubblichiamo parte della prefazione e del primo capitolo de “L’Italia della Uno bianca: una storia di politica e di mafia ancora tutta da raccontare” di Giovanni Spinosa, in uscita oggi per Chiarelettere.
L’Italia della Uno bianca non è, purtroppo, un romanzo. È un processo ai processi che, in seguito a una colossale e raffinatissima operazione di depistaggio, hanno liquidato i delitti della Uno bianca (82 “colpi” in Emilia Romagna, 23 morti, decine di feriti, otto anni di sangue dal 1987 al 1994) come opera esclusiva di “un’impresa criminale a natura familiare”. Una banda messa in piedi, chissà perché, dai tre famigerati fratelli Savi da Forlì: il capo, Roberto il “ragioniere”, capopattuglia del 113 della Questura di Bologna; il gregario, Fabio il “fantasista”, camionista a Rimini; e più defilato Alberto, il “rintronato”, poliziotto del commissariato di Rimini. Aiutati da un pugno di complici, poliziotti anche loro: Marino Occhipinti e Pietro Gugliotta, in servizio a Bologna, e Luca Vallicelli della Polstrada di Cesena, già in servizio presso la Questura di Bologna. Che titolo ha il giudice Spinosa, presidente del Tribunale di Teramo, di riscrivere i processi sui delitti della Uno bianca?
A CAVALLO fra gli anni 80 e 90, quando l’Emilia Romagna era percorsa da quell’interminabile scia di sangue, era pm a Bologna e fu incaricato per primo di seguire le indagini. Poi però, dopo l’arresto dei Savi nel 1994, le piste che stava battendo non collimavano con quelle della polizia, attestata sulla linea minimalista della banda famigliare che rapinava, sparava, ammazzava per esclusivi scopi di lucro. Così fu di fatto allontanato dalle indagini e queste, da allora, collimarono perfettamente con l’impostazione della polizia, che a sua volta combaciava mirabilmente con il racconto dei Savi, che a sua volta fu consacrato, anzi imbalsamato per sempre da una raffica di sentenze definitive. I tre fratelli infatti si erano lasciati disciplinatamente catturare, pur potendo fuggire all’estero con il loro bottino miliardario (in lire, peraltro mai del tutto rinvenuto). Avevano fatto ritrovare l’arsenale delle armi usate nei loro colpi. E avevano fatto di tutto per accreditare la versione della banda solitaria, priva di agganci esterni, mossa da un unico movente: “Fare soldi” (e allora perché mai sparavano all’impazzata in un campo nomadi o ferivano a sangue freddo due lavavetri tunisini in un parcheggio, e in alcune rapine dimenticavano persino il bottino sul posto?). Fu così che i Savi riuscirono a far assolvere un bel po’ di personaggi legati alla mafia e alla camorra, in due processi aperti prima della loro cattura e giunti alle soglie della Cassazione, prendendosi la colpa al posto loro appena in tempo. E poco importa se alcuni degli imputati scagionati dai Savi avevano addirittura confessato. (...) Come la pensi Spinosa, lo si intuisce chiaramente nel libro: i delitti della Uno bianca sono uno dei primi atti della strategia terroristica e destabilizzante che la mafia scatena contro lo Stato a causa del maxiprocesso a Cosa Nostra, quello istruito a Palermo dal 1984 dal pool di Falcone e Borsellino (...).
LA PRIMA VOLTA che Cosa Nostra tracima dai confini siciliani per colpire in territorio continentale è nel 1984 con la strage del Rapido 904, nella galleria sotto l’Appennino tosco-emiliano. Poi i 7 anni della Uno bianca, dal 1987 al 1994. Intanto, dopo le stragi “palermitane” di Capaci e via D’Amelio nel 1992, Cosa Nostra torna a colpire nel continente nel maggio-luglio ‘93: fine della guerra della mafia allo Stato e inizio della lunga “pax mafiosa”. Nel 1994 finisce anche la lunga corsa della Uno bianca, in seguito a quella che i giudici definiranno una “strabiliante” “concomitanza di circostanze del tutto fortuite e sicuramente irripetibili”. (...) Secondo Spinosa, in questo vastissimo progetto eversivo, il ruolo dei Savi è al massimo quello di trafficanti-fornitori di armi e di esecutori materiali di rapine anche sanguinose. Ma sempre sotto una regia esterna e superiore. (...) I Savi, pur sentendosi braccati, anziché fuggire, si fanno arrestare con tutte le loro armi e le loro auto (e fors’anche con quelle altrui), dopo aver seminato per anni prove contro se stessi. E, prima di farsi catturare, Fabio e Roberto concordano il racconto dei vari delitti da consegnare poi agli inquirenti. (...) Se non ci fossero tanti morti, ci sarebbe da scompisciarsi dinanzi a certe verità ufficiali consacrate dalle sentenze: centinaia di armi da guerra acquistate e mai usate; proiettili e targhe d’auto che compaiono e scompaiono; complici che evaporano dalle scene dei delitti; auto rubate che cambiano colore o si guidano da sole per 1500 km. (...) In fondo è quel che è appena accaduto grazie al pentito Gaspare Spatuzza, che ha smascherato e demolito la versione “minimalista” sulla strage di via D’Amelio, ormai cristallizzata fino al verdetto di Cassazione: anche lì un depistaggio istituzionale aveva indirizzato indagini, processi e sentenze su una banda di “scassapagghiari” per tenere fuori i Graviano e soprattutto i loro amici politico-istituzionali. Chissà che questo libro, oltre a sbugiardare le comode “verità” della Uno bianca, non convinca qualcuno che sa a parlare. Marco Travaglio • Una telefonata porta all’arresto dei fratelli Savi. È il 21 novembre 1994. Roberto, il poliziotto, soprannominato “il corto”, chiama Fabio, quello noto come “il lungo”, per fissare un appuntamento. “Come al solito alle sei” pattuiscono. La polizia è all’ascolto. A quell’ora del mattino difficilmente un pedinamento può essere discreto. Ma gli inquirenti decidono ugualmente di correre il rischio. Sospettano che i Savi abbiano in mente di rapinare una banca e che si stiano accordando per arrivare sul posto prima che apra. (...) Ma il pedina-mento delle auto civetta allerta i due fratelli che, giunti a destinazione, non si fermano e prendono direzioni opposte. La reazione degli inquirenti è immediata. È ormai chiaro che i Savi hanno capito di essere sotto osservazione; bisogna agire. Le perquisizioni effettuate la sera stessa nelle abitazioni dei due fratelli non lasciano spazio a dubbi: armi, munizioni, radio, ricetrasmittenti, denaro, filmati con le prove di rapine, posticci per travestimenti. Infine, in un borsello ordinatamente riposto in cantina, viene rinvenuto un pacchetto di listelle in plastica ricavate da schede telefoniche: il marchio esclusivo dei banditi della Uno bianca, che le usano per mettere in moto le auto rubate. Il caso a volte è determinante, è vero, ma la sola fortuna non può spiegare l’arresto dei Savi, le modalità con cui esso è avvenuto. L’indagine che ha permesso il loro arresto, condotta dai due bravi ispettori di polizia Luciano Baglioni e Piero Costanza, è stata molto lodata, tanto da far calare un velo sulle innumerevoli e fortuite circostanze che la “orientarono”. La premessa investigativa fu, secondo la narrazione della Corte d’Assise di Rimini, il furto di una Fiat Tipo utilizzata per una rapina attribuita alla banda della Uno bianca. In sostanza, “si aveva fondato motivo di credere che gli autori del fatto, prima di sottrarre la Fiat Tipo utilizzata per il delitto, fossero giunti a bordo di una Mercedes” con targa FO7 “...”. Il 3 novembre 1994, i due ispettori erano appostati davanti a una banca in località Santa Giustina, vicino Rimini. Si trattava di un appostamento non diverso dai tanti fatti in collaborazione con i colleghi di altre forze di polizia. Questa volta, però, successe qualcosa di strano. Una Tipo bianca “con targa illeggibile” perché sporca di fango passò due volte davanti alla banca rallentando in modo evidente. I due poliziotti s’insospettirono e decisero di seguirla. Purtroppo (o fortunatamente) persero il controllo visivo dell’auto “prima di giungere a Torriana”, dove arrivarono in modo casuale nella direzione intrapresa dal mezzo.
Il caso volle che notassero una Fiat Tipo bianca parcheggiata; “non videro alcuno scendere dall’auto, ma si accorsero di un uomo che saliva le scale del civico 29” di piazza della Libertà. Decisero però di non avvicinarsi all’abitazione per non destare sospetti e non rilevarono la targa dell’auto. Tuttavia, un rapido accertamento sugli abitanti di quel condominio consentì di verificare che vi abitava un certo Fabio Savi, possessore di una Mercedes con targa FO7... . Grazie a una foto, Baglioni e Costanza scoprirono che il sospetto somigliava a uno degli autori di una rapina a Cesena del 1991 (...). La Corte d’Assise di Rimini non ha dubbi: Savi “non possedeva quell’auto”. La Fiat Tipo bianca che passò davanti alla banca era, quindi, la macchina di uno sconosciuto; quella parcheggiata davanti all’abitazione di Fabio Savi apparteneva a un innocuo vicino. (...) (...) Baglioni e Costanza non avrebbero avuto alcuna ragione d’insospettirsi per il passaggio di una Fiat Tipo (macchina che, in teoria, non avrebbe dovuto nemmeno essere segnalata come collegata ai banditi della Uno bianca) davanti alla banca, se tale passaggio non avesse avuto caratteristiche particolarmente sospette e reiterate. Verrebbe da dire: adescanti. Giovanni Spinosa