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 2012  marzo 16 Venerdì calendario

Non c’è solo la battaglia di Anghiari nel lungo elenco di capolavori scomparsi, distrutti, nascosti, dimenticati, triturati dalla Storia e dagli eventi bellici o semplicemente introvabili, diventati leggenda, a volte ossessione

Non c’è solo la battaglia di Anghiari nel lungo elenco di capolavori scomparsi, distrutti, nascosti, dimenticati, triturati dalla Storia e dagli eventi bellici o semplicemente introvabili, diventati leggenda, a volte ossessione. Qualche anno fa un discusso studioso inglese, Philip Mould, pubblicò un libro sulla Eccitante ricerca dei tesori d’arte perduti , che si intitolava Sleuth (Segugio). Raccontava di scoperte esaltanti, come quella avvenuta in Inghilterra quando il figlio di un ricco collezionista che aveva prestato al Rockwell Museum un quadro di Norman Rockwell, il grande illustratore americano del «realismo romantico», abbattè un muro e scoprì che l’originale era lì dietro, in casa. Quel taccagno del padre al museo aveva dato solo una copia. Fatte le dovute proporzioni, e taccagneria a parte, la situazione è sempre la stessa, come lo sono il gioco delle parti, il clamore, l’atmosfera di sospensione e di meraviglia, le polemiche che in questi giorni fanno della caccia alla Battaglia di Anghiari , il Leonardo perduto di Palazzo Vecchio, a Firenze, un evento mediatico prima ancora che scientifico. Se poi dietro il muro del Vasari ci sia davvero l’agognato Graal, questa è già tutta un’altra storia. Non sappiamo neppure se lo riconosceremo, perché è probabile sia in pessime condizioni. È la maledizione - e anche il fascino - dei capolavori perduti, ridotti a traccia evanescente, spettro, sogno di un sogno. E non riguarda solo Leonardo. Ammesso che ancora esista e non sia in polvere da secoli, ad esempio, come potrebbe essere oggi l’ Ercole di Michelangelo, scolpito dopo la morte di Lorenzo il Magnifico, descritto dal Vasari, acquistato da Francesco I dopo l’assedio di Firenze, e scomparso in Francia intorno al 1713, all’epoca di Luigi XIV? C’è un disegno di Rubens che (forse) la riproduce, ed è tutto. Le opere perdute sono innumerevoli. Il Rinascimento ha fatto strage del Quattrocento romano (dagli affreschi sulle storie di san Giovanni Battista realizzati da Gentile da Fabriano per San Giovanni in Laterano, a quelli di Pisanello che completò il ciclo, alle stanze di Piero della Francesca in Vaticano, ai Pinturicchio, ai Signorelli e agli altri maestri che vennero coperti nei Palazzi Vaticani e nella Cappella Sistina. Nella gran maggioranza dei casi ritrovarle è semplicemente impossibile, restano icone della nostalgia cui si può dedicare anche una grande mostra, come quella sul ‘400 a Roma, al Museo del Corso, nel 2008. Sono il segno che la storia, anche quella dell’arte, conserva e distrugge, inarrestabile. Qualche volta dimentica. La graduatoria degli introvabili, dei fantasmi più ambiti, dei sogni filologici, è ovviamente diversa da studioso a studioso. Ognuno ha la sua «arca perduta», non tutti la dichiarano. Quella di Flavio Caroli, in sintonia con i suoi studi, è forse una delle più universali: «Caravaggio dichiara - è uno dei più straordinari enigmi che conosca». Ed ecco perché: «Fino a qualche mese fa si pensava che fosse giunto a Roma a 23 anni, ora si propende per i 25. Ed era già un rivoluzionario. Come lo è diventato? Non lo sappiamo. Non esiste un solo quadro dipinto in Lombardia prima di quella data, ed è ovviamente impossibile che non abbia lavorato in ambiente lombardo. Abbiamo qualche vaga traccia, possiamo immaginare che si dedicasse a nature morte, cesti di frutta come la sua Fiscella conservata alla Pinacoteca Ambrosiana». Trovare un dipinto milanese sarebbe una scoperta più importante di qualsiasi Leonardo? «Sarebbe sconvolgente. Caravaggio resta l’unico caso nella storia dell’arte in cui non conosciamo, per così dire, il ritratto dell’artista da giovane». Le speranze di arrivarci sono esili, e non sarà certo questioni di muri da superare o di botteghe da esplorare. Ci vorrebbe un colpo di genio, un momento fatato di serendipity come quello che portò alla scoperta di un maestro non solo ignoto, ma di cui per secoli non si sospettò neppure l’esistenza: Jan Vermeer. Fu un critico e studioso francese, Théophile Thoré Burger (1807-1869), spesso in esilio per le sue posizioni rivoluzionarie, a scoprire che fra i molti pittori olandesi a nome Vermeer ce n’era uno straordinario, e a stilare la lista delle sue opere: quando si trovò il testamento dell’artista, a Deft, si scoprì che corrispondeva perfettamente. La caccia ai capolavori perduti continua, aiutata da tecnologie sempre più sofisticate. Ma sarà difficile superare Thoré, che non ne aveva a disposizione proprio nessuna. E forse neppure necessario, fatte salve le ambizioni personali. Salvatore Settis, da storico dell’arte antica, ci ricorda ad esempio come in questo campo tutto o quasi sia «perduto», e solo una percentuale minima di quelle opere sia arrivata a noi. Basti pensare a Policleto e Apelle, considerati l’uno il più grande scultore, l’altro il più grande pittore dell’antichità. «La speranza non è certo di trovare qualche loro opera, ma di cogliere un riflesso in più nelle copie romane o negli affreschi, che so, di Pompei», dice lo studioso. In ultima analisi, è anche giusto così. Perché l’«accanimento» quasi terapeutico -, nei confronti dei grandi nomi e delle loro opere scomparse è «completamente sbagliato. In un momento molto difficile, in cui tutto sembra andare in malora, bisognapiuttosto salvaguardare quel c’è». Settis pensa a un Leonardo magicamente ritrovato, il Salvator mundi esposto a Londra l’anno scorso, «che forse non è neppure un Leonardo». E a una miriade di casi che sconfinano nella «botta di teatro»: «Un paravento per nascondere la nostra incapacità di gestire il patrimonio esistente».