Tonia Mastrobuoni - Alessandro Alviani, La Stampa 16/3/2012, 16 marzo 2012
TONIA MASTROBUONI
Tre anni fa fece molto discutere in Germania il cosiddetto «caso Emmely». Una cassiera di un supermercato rubò due gettoni per il vuoto a rendere da un euro e trenta. Venne licenziata in tronco, dopo 31 anni di onorato servizio. Il caso suscitò un enorme scalpore in Germania e attraversò vari gradi di giudizio in tribunale. Ma per due volte i magistrati decisero che era colpevole: il rapporto di fiducia con il datore di lavoro, ma anche con i clienti, era irrimediabilmente compromesso. Solo un terzo tribunale, la Corte federale del lavoro, le diede ragione. Ritenne che 1,30 euro di infrazione non potessero spazzare via un trentennio di carriera impeccabile. E lei è tornata a lavorare nel supermercato.
La domanda in questi casi nasce spontanea: a chi è convenuto il reintegro? In Germania, il caso Emmely è statisticamente l’eccezione che conferma la regola. Il rientro in azienda è un caso rarissimo. Eppure, anche nel paese di Angela Merkel non si può essere licenziati senza giusta causa. Come in tutta Europa, del resto. La Carta dei diritti fondamentali sancisce che nessuno può essere buttato fuori da un’azienda senza un motivo oggettivo e accertabile.
La verità è che in Germania ci si è resi conto che in molti casi è anche nell’interesse del lavoratore negoziare un lauto indennizzo invece di farsi riassumere in un posto di lavoro dove il clima rischia di non essere più particolarmente «salubre», al rientro.
La differenza sostanziale con l’Italia, dove Elsa Fornero sta pensando al «modello tedesco» in particolare per il licenziamento disciplinare - sta nel ruolo del giudice. In Germania è lui che decide se reintegrare o meno il lavoratore, nel caso di allontanamento dal posto di lavoro. In Italia no: se la sentenza dà ragione al licenziato, è previsto sia l’indennizzo sia il reintegro. Ed è noto che il vero deterrente per i datori di lavoro non è quello economico, ma l’obbligo a far rientrare il lavoratore al suo posto. Spesso dopo tantissimo tempo: i due economisti Andrea Ichino (Università di Bologna) e Paolo Pinotti (Bocconi) l’hanno calcolato. A Roma i processi per licenziamento durano in media 429 giorni, a Milano 266 e 200 a Torino.
I numeri tedeschi dipingono un quadro molto diverso: nell’84 per cento dei casi il magistrato opta per l’obbligo al risarcimento economico; solo al 16 per cento viene riconosciuto il diritto al rientro nel posto di lavoro. E anche in quei casi, spiega il giuslavorista Pietro Ichino, «i lavoratori si oppongono quasi sempre» e ottengono un risarcimento che si aggira in genere attorno a una mensilità lorda per ogni anno di anzianità accumulata.
Il risultato è che la quota reale di lavoratori sui quali il giudice invece insiste e che vengono reinseriti nel vecchio posto di lavoro, «è attorno al 5 per cento. E quasi sempre si tratta di casi di discriminazione o di rappresaglia antisindacale».
Il risultato, insomma, è che se in Germania il giudice dà ragione al lavoratore, solo in un caso su venti torna al posto di lavoro, solo in caso di discriminazioni gravissime. Certo, dal punto di vista del datore di lavoro il fatto che sia comunque il giudice a decidere lascia un margine di aleatorietà - e funziona ancora da deterrente. Ma di recente la Repubblica federale ha migliorato la legislazione sul lavoro, in modo da ridurre al minimo anche il ricorso ai tribunali.
Dal 2004, infatti, con l’introduzione delle riforme Hartz IV dell’ex cancelliere Gerhard Schroeder è arrivata anche una legge che incoraggia le aziende a mettersi d’accordo subito su un risarcimento congruo con il lavoratore licenziato. Se accetta, il caso si chiude là. Non solo: se decide comunque di andare avanti, va in tribunale e perde, «rischia di rimanere con un pugno di mosche», sintetizza Ichino. Senza reintegro e senza soldi. Il risultato è che ormai la maggior parte dei casi di licenziamento, in Germania, si risolvono prima del ricorso al giudice.
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ALESSANDRO ALVIANI
Che la Germania non senta al momento la necessità di discutere una riforma della sua disciplina sui licenziamenti lo si scopre in due modi. Leggendo i dati esistenti, quelli che parlano ad esempio di un boom dell’occupazione nel 2011 grazie all’imponente crescita del Pil. E concentrandosi sui dati non esistenti, o meglio, non aggiornati: le ultime ricerche sull’efficacia e sugli effetti della legge sulla tutela dai licenziamenti risalgono ad almeno a tre anni fa. E rivelano che spesso, nel «modello tedesco», la domanda su un reintegro ordinato dal giudice o meno non si pone: nella prassi la strada maestra è quella dell’indennizzo. Pur di evitare le lunghezze e le incertezze di un procedimento giudiziario molte società preferiscono accordarsi per versare una somma di denaro ai lavoratori licenziati, spiega Elke Jahn, esperta dell’IAB, l’istituto di ricerca dell’Agenzia federale del lavoro. L’indennizzo medio, nota, si aggira intorno ai 9.700 euro. «Soprattutto le grandi aziende seguono in maniera sistematica la strategia dell’indennizzo», continua Frau Jahn. Questo si spiega anche con la regola della «Sozialauswahl», cioè selezione sociale: in caso di licenziamenti per motivi economici la scure si abbatte prioritariamente sui dipendenti per i quali la perdita del posto ha effetti meno virulenti; i criteri sono, ad esempio, l’età, l’anzianità aziendale o l’obbligo di passare gli alimenti all’ex marito o moglie. In un gruppo delle dimensioni di Siemens o Volkswagen compiere una simile selezione può diventare un’impresa.
Secondo un’indagine diffusa nel 2009 dalla Hans-Böckler-Stiftung, la fondazione di ricerca della confederazione sindacale DGB, in caso di licenziamento appena il 12% dei lavoratoriintenta una causa. Secondo Frau Jahn e secondo uno studio condotto nel 2008 dall’istituto economico IW, vicino ai datori di lavoro, la percentuale si aggira invece intorno al 30%.
La legge sulla tutela dai licenziamenti, che si applica alle società con almeno dieci dipendenti e ai lavoratori impiegati da almeno sei mesi, prevede che le società possono allegare al licenziamento per motivi economici un’offerta di indennizzo, a patto che il dipendente rinunci a un ricorso in tribunale. A questo punto il lavoratore può scegliere tra accettare l’indennizzo o presentare ricorso. Decisivo appare il ruolo del consiglio di fabbrica: il datore di lavoro è obbligato a sentirlo e a motivare la sua decisione. Se il consiglio di fabbrica si oppone e se il lavoratore ha sporto causa contro il licenziamento entro tre settimane dal ricevimento della notifica, l’azienda è costretta a continuare ad impiegare il dipendente fino alla sentenza del tribunale. Prima dell’inizio del processo le parti si incontrano per un’udienza di conciliazione, che si conclude spesso con un’intesa. Stando allo studio dell’IW circa tre quarti dei processi sfociano di fatto in un accordo di compromesso tra le parti. Nel 20% dei casi si arriva invece a una sentenza che conferma la validità del licenziamento, mentre in appena il 3% la sentenza giudica nullo il licenziamento. L’entità dell’indennizzo equivale per legge alla metà dello stipendio mensile lordo per ogni anno di impiego nell’azienda. In ogni caso può ammontare a dodici mensilità, che salgono fino a 15 per i dipendenti ultracinquantenni che lavorano in azienda da almeno 15 anni oppure a 18 mensilità per gli ultracinquantacinquenni con 20 anni di anzianità aziendale. E il reintegro? Di fatto, conclude Frau Jahn, una volta scelta la strada del ricorso il rapporto con l’azienda è logorato, per cui ne va solo della somma di denaro su cui accordarsi.