Nello Ajello, la Repubblica 16/3/2012, 16 marzo 2012
Indro Montanelli ne ammirava la "sobrietà" e la «rinunzia ad ogni eloquenza». Bernardo Valli ne apprezza il talento nell´«afferrare la notizia sconosciuta nascosta dietro ad ogni notizia»
Indro Montanelli ne ammirava la "sobrietà" e la «rinunzia ad ogni eloquenza». Bernardo Valli ne apprezza il talento nell´«afferrare la notizia sconosciuta nascosta dietro ad ogni notizia». Claudio Magris scorge in lui «un grande direttore dei momenti eccezionali». Sto parlando di Alberto Cavallari, del quale è uscito da Aragno un volume intitolato La forza di Sisifo (a cura di Marzio Breda). È merito del curatore l´aver riprodotto, in un´antologia di articoli, le doti tipiche di un uomo al quale non si può lesinare la qualifica di "personaggio". Se dovessi indicare il senso ultimo della presenza di Cavallari nel nostro mestiere, lo definirei «la passione fredda». Massimo esempio di questa sua dote è il resoconto di un incontro che ebbe con papa Paolo VI nell´ottobre del 1965. È un racconto che lascia un segno nella figura di quel pontefice di solito considerato "amletico". Un professionista privo di retorica dialoga con un essere che, pur gravato da un´aureola, si mostra incapace d´illusioni fino ai confini dello stupore o del mistero: ecco la trama del servizio. Due intellettuali moderni che si parlano. Ma ciò che stupisce è che moderno fosse l´"intervistato", sul cui capo il peso dei millenni sembrava alleggerito dal «rifiuto d´ogni orgoglioso ottimismo». Non è dato riassumere il dialogo, ma bastano a darne un´idea alcune righe. Ritraggono «un magro papa, che si china col suo profilo gotico, aspro, per affermare nel cattolicesimo una condizione di minoranza perché "la realtà vera è che il mondo non crede più"». Colpisce «il suo sguardo dolcemente freddo che interroga: "dobbiamo dire qualcosa, che cosa?"...». Ecco, quest´immagine, chiosa Cavallari, «mi è parsa la più potente nel mettere a fuoco il Vaticano che cambia». Che poi, visto dal "dopo", esso non sia poi tanto cambiato è solo la riprova di quel sacro rovello catturato tanti anni fa da un giornalista. Il quale riesce a cogliere anche un momento in cui quel papa «ride apertamente». È quando racconta a Cavallari di aver ricevuto un rappresentante della Chiesa valdese. «S´è affacciato all´uscio, ci è venuto incontro e, stendendo la mano, ha esclamato: "Buongiorno, sono cinquecento anni che non ci vediamo"». Scrivendo, Cavallari si sforzava di non non lasciare dubbi sulla propria formazione. «Sono un Gl, Giustizia e Libertà, più la lezione di Piero Gobetti, più il Gramsci che piacque a Gobetti»: così si definiva (lo attesta Breda). Nel suo suo schierarsi a sinistra non mancavano tuttavia accenti fuori-schema. Un articolo scritto per il Natale del 1975 è basato sulla "rivisitazione" di una parabola inventata da Prezzolini a commento del dramma di Caporetto. Eccola: l´Italia abitata da furbi e da fessi. Questa riesumazione era quanto di meno "progressista" ci si potesse attendere, dato il clima prevalente in quel 1975. Ma riletta oggi, la parabola assume il senso d´un giudizio esatto e profetico, specie laddove Cavallari – in groppa a Prezzolini – osserva che il furbo italico «non usa mai parole chiare, e comanda non per la sua capacità ma per l´abilità di fingersi capace». Vivendo a Parigi, dove era stato corrispondente di vari quotidiani, Cavallari aveva conservato nei riguardi della Francia uno spirito d´indipendenza a tratti mordace. Si legga per esempio la nota che scrisse, nell´aprile del 1980, per la morte di Jean-Paul Sartre. Gli anni finali dell´autore della Nausea li raccontava come la recita inscenata da un "discutibile maître à vivre". E, per finire, la sentenza: «L´ultimo servizio che Sartre ha reso all´umanità è di aver dimostrato che tutte le "chiese" si somigliano, e che anche l´"umanesimo laico" diventa un´immensa fabbrica di papi e papesse quando si esprime per "parrocchie" intellettuali». Non stupisce che, anche a causa di certi suoi articoli sulle «affaires che si susseguirono nel regime giscardiano», in cima all´Eliseo la sua figura non raccogliesse consensi. Lo avvertiva con rammarico. Nulla di paragonabile a ciò che gli toccò di soffrire qui da noi, quando, su affettuosa ingiunzione di Sandro Pertini, dové assumere la direzione del Corriere della Sera, diventato un drammatico relitto della vicenda P2. Era il 29 giugno 1981. Il 13 di quel mese, il direttore, Franco Di Bella, era stato costretto a lasciare il suo posto. I vertici del giornale, confusi con quelli della nefasta Loggia, attraversavano vicende macabre. Roberto Calvi suicida o assassinato a Londra, Angelo Rizzoli, suo fratello Alberto e Bruno Tassan Din in stato di detenzione. Umberto Ortolani e Licio Gelli fuggitivi. L´azienda alla deriva. E tuttavia Cavallari non si sottrae all´invito: è, scrive, «una chiamata di servizio che non posso rifiutare». I guai della testata sono troppi: il temperamento di Cavallari gli vieta, poi, di sopportare con disinvoltura il perdurante discredito d´un giornale a sua firma. I rapporti con i politici – fatta eccezione per il Pci, che ha contribuito alla sua nomina – sono pessimi. Quelli con Craxi e i craxiani si stabiliscono sul piano della querela: a Cavallari non sarà risparmiata una condanna penale. Chi voglia approfondire la materia scorra gli articoli di "saluto" che egli rivolse ai lettori, assumendo la direzione e poi lasciandola, tre anni più tardi. Specie nel "pezzo" del commiato (17 giugno 1984), lui c´è dentro tutto: schietto, antiretorico, passionale. Malgrado il contesto, vi si legge, «facemmo il giornale ogni giorno, magari brutto». Ma il problema, aggiungeva, «non era di fare un bel Corriere, era di farlo sopravvivere». Missione compiuta: sarà il sottinteso di ogni incontro che capiterà di avere con l´ex direttore, a Roma o a Parigi (dove tornò a vivere dopo il 1984), nelle stanze della Repubblica (cui collaborò fino agli ultimi suoi giorni, caduti nell´estate del 1998), davanti a un tavolo di redazione o a cena. Certe esperienze segnano un uomo per sempre: ecco una frase che egli avrebbe espunta da qualunque testo. Suo o altrui.