Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  marzo 17 Sabato calendario

Panorama, 21 marzo 2012 Per Andrea Antonello è tutto bello. «America bella, John Wayne bello, elastico bello, ciambella bella, petrolio bello, cacca bella, signora bella, ragazze belle, coyote bello, Katleen bella, colori belli, passeggiata bella, ricordo bello, casa bella, giro bello»

Panorama, 21 marzo 2012 Per Andrea Antonello è tutto bello. «America bella, John Wayne bello, elastico bello, ciambella bella, petrolio bello, cacca bella, signora bella, ragazze belle, coyote bello, Katleen bella, colori belli, passeggiata bella, ricordo bello, casa bella, giro bello». Ce ne sono una ventina, di queste espressioni, disseminate nelle 320 pagine di Se ti abbraccio non aver paura. Un entusiasmo per la vita che è ignoto alla maggior parte dei suoi coetanei adolescenti. Forse perché solo a lui, un autistico, è stato dato di capire una verità tanto elementare: la vita è bella. È più spaventato dalla vita Franco, suo padre, imprenditore cinquantunenne di Castelfranco Veneto, che non Andrea. Lo si intuisce dal loro dialogo prima della partenza per la straordinaria esplorazione delle Americhe che li ha portati dagli Stati Uniti al Cile; un botta e risposta affidato al computer, perché è solo in questo modo che Andrea, dopo anni di estenuanti esercizi, riesce a comunicare col resto del mondo, a condizione che un facilitatore (è così che si chiama) gli tenga un dito appoggiato fra le scapole: «Sai qual è l’unica mia paura? Se ci perdiamo non ci troveremo più. Cosa ne pensi?». Andrea: «Sto vicino a papà». «E se ti perdi, e non mi vedi più, cosa fai?». Andrea: «Muoio». «Non è che muori subito. Prima di morire cosa faresti?». Andrea: «Guardo in giro». «E se non mi vedi per tanto tempo…». Andrea: «Chiamo papà». Un padre non abbandona mai suo figlio, mai, e anche quest’altra elementare verità è ben presente all’autistico di 18 anni, «un bel ragazzo dai muscoli tonici e dalle spalle larghe» lo descrive il genitore, ed è vero «già alto un metro e 80, pieno di energia, che non si stanca mai, che non fa sport, ma è come se li praticasse tutti ogni santo giorno per via di quel suo camminare in punta di piedi: il corpo lavora costantemente, la schiena è dritta, il culo si rassoda di continuo, gli addominali sono tesi e il collo ben sollevato». E infatti alle ragazze piace da morire: «We like sex with sexy Italians» è stato l’esplicito approccio di due americane su una spiaggia della Florida. Prima la cavalcata coast to coast attraverso 11 stati americani, da Miami a Los Angeles, in sella a una Harley-Davidson. Poi, con auto a noleggio e torpedoni, Messico, Guatemala, Belize, Costa Rica e Panama. Volo fino a Manaus, nel cuore dell’Amazzonia, con un’ultima tappa da Salvador de Bahia ad Arraial d’Ajuda. Qui finisce anche il libro. Ma il viaggio ha avuto un’appendice, conclusasi il 15 febbraio, attraverso Uruguay, Argentina, Cile, Perù e Bolivia per tornare di nuovo, tagliando il Mato Grosso, ad Arraial d’Ajuda, dove Andrea aveva conosciuto Angelica e, per la prima volta, l’amore: «Angelica bella». Loro due da soli, padre e figlio, per 38 mila chilometri, molti di più se si contano le trasvolate oceaniche da e per l’Italia, lasciando a casa Bianca, la mamma, e Alberto, il fratellino di 11 anni. Un’esplosione di libertà lunga 123 giorni che è diventata occasione per una terapia reciproca, per volersi ancora più bene di quanto già non se ne volessero, e ora anche un toccante diario di viaggio che Panorama ha potuto leggere in anteprima. Fulvio Ervas, un insegnante di scienze trevigiano che è anche un formidabile narratore, ha ascoltato per caso la storia al bar, davanti a uno spritz, e se n’è innamorato, ricavandone il libro, edito da Marcos y Marcos, in uscita il 12 aprile. Il titolo, Se ti abbraccio non aver paura, è anche l’avvertenza che Franco Antonello ha dovuto scrivere, per tranquillizzare i passanti, sulle magliette indossate da Andrea. Suo figlio cominciò a 14 anni a gettare le braccia al collo degli sconosciuti e a toccargli il ventre. «Sento la pancia delle persone per conoscere chi mi sta vicino» dice Andrea. «Mi presento alle persone toccandole e sto tranquillo». Come se si mettesse in ascolto. Una forma primordiale di contatto: non è in questo modo che i padri parlano con i figli prim’ancora che nascano? «Solo che adesso ha cominciato a toccare anche le tette delle signore che incontra per strada ed è un problema enorme» spiega il papà. Franco Antonello si occupa di pubblicità ed è editore di riviste distribuite con Il Sole 24 ore. Cinque anni fa ha deciso di lasciare l’azienda in mano ai suoi collaboratori, diventati soci, e s’è ritagliato un semplice stipendio che gli consente di occuparsi a tempo pieno dell’associazione I Bambini delle Fate, concepita come una vera e propria impresa che per statuto deve dare ogni anno il 65 per cento di utili, da destinare alla ricerca sull’autismo e al sostegno delle famiglie come la sua. Il viaggio doveva essere un regalo per Andrea: «Dal tabaccaio aveva acquistato un gratta e vinci con la combinazione giusta». Una botta di fortuna da almeno 20 o 30 mila euro, suo padre non vuole scendere nei dettagli. «Ho riposto il biglietto nel cassetto della scrivania. Dovevo informarmi su come incassare il premio. Solo che fra le passioni di mio figlio c’è quella di strappare in parti uguali, a una velocità impressionante, qualsiasi pezzo di carta gli capiti a tiro. La mattina dopo, molto presto, Andrea era già sveglio e gironzolava in pigiama. A piedi scalzi ho calpestato una briciola, poi un’altra, finché sul tavolo ho visto un mucchietto di coriandoli: quel che restava del tagliando della lotteria. Frammenti di fortuna finiti nella spazzatura». Chi è un autistico? Andrea ha scritto: «Sono un uomo imprigionato nei pensieri di libertà». Da quanto tempo è così? Fino ai 2 anni e mezzo era un bimbo normalissimo. Fu sottoposto alla vaccinazione trivalente. Qualche mese dopo ci chiamarono dall’asilo: «Vostro figlio è strano, è cambiato». A 3 anni arrivò la diagnosi da un luminare di Siena. Per tutto il viaggio di ritorno riempii l’auto di urla e di lacrime. Quali terapie ha tentato? L’ho portato nei centri clinici più specializzati. Oltre a Siena, tutti quelli del Veneto, Milano, Genova, Torino, Bari, Lecce, Palermo, e poi Lugano e Miami. Due anni di cura con una dieta speciale a Bologna. Iniezioni in Germania. Metodo Dan importato dagli Usa. Guaritori nelle Filippine. Sciamani brasiliani che l’hanno visitato a Rio de Janeiro, Recife e Salvador de Bahia. Siamo andati persino a Touba, in Senegal, la città santa musulmana, dal discendente dello sceicco Ahmadou Bamba. Mi parli di Andrea. È come una ricetrasmittente che riceve e non trasmette. Capta i più piccoli segnali, ma emette solo qualche fruscio. Comunicazione verbale, zero. Le sue risposte sono sempre uguali. Non sa dire che ha caldo, né che ha freddo, né che ha fame. Mi sono accorto che s’era scottato una gamba col tubo di scappamento della moto solo perché gli è comparsa una vescica mostruosa. A 8 anni la dottoressa ci annunciò: «Andrea sa leggere». Le avrei tirato un cartone sul naso. Invece era vero. Un giorno prese a pugni un coetaneo. Lo interrogai per iscritto, volevo capire il perché. La risposta fu: «Non parlo, ma ci sento». Scoprimmo che quel compagno di scuola lo chiamava «pazzo rompiballe». Che scuola frequenta? L’istituto statale Florence Nightingale per assistenti sociali, qui a Castelfranco. È al quarto anno, unico maschio in una classe di femmine che lo adorano. Andrea si rende conto del suo stato? Perfettamente. Al fratello scrive: «Grazie che mi sopporti. Vorrei essere come te, ma non ci riesco». A me: «Papà, aiutami a guarire da autismo». Nel tema dell’esame di terza media, scritto al computer: «Tantissimo ho da dare. Universo con pianeti da scoprire ho nel mio cervello di ragazzo che lotta per crescere migliore». Sa che dall’autismo non si affrancherà mai e ci chiede l’impossibile: uscirne. Lei ha mai sentito di un autistico guarito? A volte. Ma quando chiedevo un nome e cognome, una località precisa, nessuno ha mai saputo darmeli. Quindi non ci credo. Perché ha deciso di attraversare il continente americano con Andrea? È già difficile organizzare le sue giornate. Ha idea di che cosa significhi gestirlo per un’intera estate, con le scuole chiuse? Mi suggerivano di portarlo in vacanza a Jesolo o sulle Dolomiti. Mi sono detto: no, voglio per lui qualcosa di strepitoso. E siamo partiti per un viaggio senza bussola e senza meta, improvvisato non di giorno in giorno, bensì di ora in ora. Andrea è tornato cambiato, l’hanno notato tutti. Non aveva paura delle reazioni imprevedibili di suo figlio durante il volo? Affronto la vita come viene. Non gli nascondo niente, gli parlo di tutto, anche delle cose più intime. L’ho sempre mandato in giro da solo. A scuola mi fanno firmare diecimila carte per sgravarsi dalle responsabilità. Però la paura di perderlo per strada durante il viaggio c’era. Quella c’è sempre. Quando Andrea era piccolo, ero arrivato a pensare a un’imbragatura con un lungo elastico da allacciarmi in vita, qualcosa che ci legasse. L’abbiamo perso e ritrovato quattro volte, con l’aiuto dei carabinieri e con l’intervento dell’elicottero. Poi ho capovolto i termini del problema. Oggi sono io che sparisco dalla sua vista all’improvviso e lui sa che deve tenermi d’occhio se non vuole perdermi. Il primo impatto con l’America com’è stato? Tragico, all’apparenza. Il tassista che ci ha raccolti all’aeroporto di Miami mi ha chiesto: «Che ha quello?». Si riferiva ad Andrea. Niente, ho risposto. «A me sembra che qualcosa abbia». È un ragazzo autistico, ho tagliato corto. «Poteva dirmelo subito!». Ho cominciato ad agitarmi. Ecco, adesso questo è capace di scaricarci per strada, ho pensato. Ma subito l’autista ha aggiunto: «Nel mio taxi i ragazzi così pagano solo metà tariffa». L’America ci dava il bacio di benvenuto con uno sconto. Avete corso qualche pericolo? Tutti. Quando ci raccomandavano: «Non andate lì», io inserivo la località nel navigatore. Per esempio in Messico ci sconsigliavano la vecchia strada costiera da Guadalajara ad Acapulco, infestata da narcotrafficanti che sparano a vista. I poliziotti ci hanno fermato quattro volte, rovesciandoci anche le mutande, ma con una gentilezza che mai mi sarei aspettato. La migliore umanità l’abbiamo trovata dove avrebbero dovuto tagliarci la gola. Momenti di paura? Solo a Puerto Escondido, per un’intossicazione da pesce. Sono svenuto in camera. Quando ho ripreso conoscenza, all’alba, mio figlio era seduto sul letto, vestito. «Vegliato papà». Non so davvero che cos’abbia provato nel vedermi per tutta la notte mezzo morto. Un’altra mattina, in un hotel di Hudson, in Florida, sono stato io a svegliarmi col cuore in gola: Andrea non c’era più. L’ho trovato in un corridoio, intento ad aiutare una cameriera. Con la geometrica precisione di cui è capace, le stava piegando gli asciugamani usati che sarebbero finiti alla rinfusa nel sacco della biancheria sporca. «È un grande raddrizzatore del mondo, questo giovane uomo» ha commentato la donna delle pulizie, forse una portoricana. «Me lo presti, signore?». Ho dovuto risponderle: non posso, è troppo importante per me. Perché pensa che nascano gli autistici? Di quale misterioso disegno faranno parte? Dammi la risposta e ho risolto i miei problemi. Non me lo spiego. Andrea ride sempre, ma nei suoi occhi leggi: «Aiutami, sono stanco, non ce la faccio più». Mi viene in mente una poesia appesa sulla parete di un ospedale per bambini: «D’accordo malattia, questa notte fammi soffrire e se vuoi anche domani, e dopodomani. Un mese, un anno, divertiti un po’ ma per sempre, per sempre no». La malattia di Andrea ha cambiato anche lei? Totalmente. Prima le mie priorità erano il lavoro, il successo, le passioni, tutte cose che mio figlio non potrà avere. Oggi guadagno la metà rispetto a prima e ho una sola priorità: Andrea. Potrei anche morire domani, d’ora in avanti tutto quello che mi arriva è regalato. Non chiedo più niente per me. Voglio solo aiutarlo a realizzare i suoi sogni. È questa forza che non mi fa né disperare né piangere. L’unico assillo è il dopo di me. Li ho visti come finiscono gli autistici senza genitori: sedati a vita, rinchiusi in una stanza. In tutto il libro Dio è scritto con la minuscola. Ne deduco che non le è di grande aiuto. Ho un rapporto difficile con lui. C’è stato un periodo in cui mi sono molto avvicinato, sentivo di credere. Ma la realtà di ogni giorno mi spinge da un’altra parte. Non posso abbandonarmi alla consolazione della fede e lasciare le cose come stanno. Mi arrabbio perché Andrea vorrebbe giocare la sua partita, ma non può. Però in Guatemala l’ha fatto sottoporre a un rito sciamanico in cimitero offrendo ai defunti uova, oli, liquori, sigari, sigarette, candele e profumi. Folclore. Provo tutto quello che incontro e non giudico. Chi sono, io, per giudicare? Suo figlio, per descrivere quest’esperienza, nel libro usa una parola che lei non adopera mai: anima. «Mi sono sentito le loro anime addosso». Andrea prova delle sensazioni che a me sono precluse. Mi sento così piccolo vicino a lui. Stefano Lorenzetto LORENZETTO Stefano. 55 anni, veronese. È stato vicedirettore vicario del Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Ultimo libro: Visti da lontano. LORENZETTO Stefano. 55 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café su Raitre. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Dieci libri: Cuor di veneto, Il Vittorioso e Visti da lontano i più recenti. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.