Alessandro Penati, la Repubblica 17/3/2012, 17 marzo 2012
Sette anni fa, su queste colonne, scrivevo: «Benetton, per anni simbolo del successo italiano, è in crisi
Sette anni fa, su queste colonne, scrivevo: «Benetton, per anni simbolo del successo italiano, è in crisi. Da dieci anni il mercato ha smesso di credere che Benetton possa crescere […] Mentre Benetton si adagiava sugli allori, negli anni ‘90 si sviluppavano nel mondo tante storie di successo: a fronte di un suo valore di 1,3 miliardi, oggi la spagnola Zara ne vale 14, 19 la svedese H&M, 6 la tedesca Adidas, 15 l´americana Gap; e Nike, fondata dello stesso anno, 17». Da allora, per Benetton sono stati altri sette anni di bassa crescita (+2,4% in media il fatturato); i margini netti, già bassi, si sono dimezzati; e in Borsa ha perso un terzo del valore. Nello stesso periodo le società sopra citate lo hanno incrementato, in media del 25%. Visto che da 20 anni i Benetton non creano valore per gli investitori, che fanno? Ritirano la società dalla Borsa. La motivazione, al solito, occupa mezza delle 118 pagine del Prospetto. Si lascia Piazza Affari per attuare «una strategia di aggiornamento e rafforzamento del modello di business» finalizzata a migliorare «il posizionamento competitivo». Insomma: cari azionisti di minoranza abbiamo gestito male la società e vi abbiamo fatto perdere soldi; adesso si volta pagina, ma eventuali guadagni della ristrutturazione vogliamo tenerceli per noi. E si lascia per «beneficiare di una più adeguata flessibilità finanziaria». E io che credevo il contrario: che la quotazione servisse a facilitare la crescita tramite acquisizioni e l´accesso al credito, visto la migliore garanzia che le azioni offrono in questo caso. La società smentisce poi che l´obiettivo siano le plusvalenze da eventuali operazioni immobiliari. Un´insinuazione dei giornalisti che, correttamente, hanno sottolineato come gli immobili in bilancio valgano quanto l´intera società in Borsa. Un´operazione che assomiglierebbe a quanto fatto dagli Agnelli con la Rinascente (vedi questa rubrica 10/12/2004). La vicenda dimostra che i nostri imprenditori considerano la Borsa come una giostra: ci si quota per far cassa, vendendo una quota di minoranza nei momenti di euforia; poi della quotazione non se ne fa nulla per non pregiudicare il controllo; e quando il titolo langue, si ricompra ai minimi. Quanto al prezzo offerto, i multipli delle società comparabili usati nel prospetto a sostegno dei 4,6 euro dell´Opa sono quelli del 2010. Non sapevo che chi compra un titolo oggi guardasse a due anni fa. Con qualche sorpresa apprendo poi dal prospetto che tra le società con cui si deve confrontare Benetton c´è la svizzera Vogele e la danese IC Companys; e che Esprit, fondata negli Usa, quotata e con sede a Hong Kong, è una società tedesca. Ogni ulteriore commento è superfluo. Ma ancor più stupisce la parte finanziaria dell´Opa. Benetton ha già un debito di 548 milioni (2,1 volte il margine lordo) in un settore dove il debito è l´eccezione. Segno che la gestione operativa non riesce a generare la cassa per finanziare gli investimenti, nonostante la società cresca poco; e quindi il debito si accumula inesorabilmente. Eppure l´Opa è finanziata interamente con il debito: in caso di successo arriverà a 3 volte il margine lordo. Per dare un´idea: Telecom Italia, pur essendo una grande società di servizi, vuole ridurre un indebitamento che è 2,5 volte il margine lordo. Di fatto quello di Benetton è un leveraged buyout. E chi finanzia i 211 milioni dell´Opa? Le nostre tre banche di sistema, Intesa, Unicredit e Mediobanca (sarei curioso di sapere a che tasso). Le stesse che lesinano il credito agli imprenditori che devono finanziare il capitale circolante per andare avanti. Ma pronte ad aprire i rubinetti per grosse operazioni finanziarie o immobiliari. Dove siano finiti in questo caso i commentatori che additano l´odiosa finanza anglosassone come fonte di tutti i mali, non si sa. Noto, a margine, che Edizione dei Benetton ha il record delle partecipazioni in società editoriali: Corriere della sera, Messaggero e Sole-24 Ore. Per il capitalismo italiano, il tempo non passa mai.