Sergio Romano, Corriere della Sera 16/3/2012, 16 marzo 2012
un’Epurazione che Non Cancella i Dubbi su un’Economia in Affanno – In Unione Sovietica l’eliminazione di un leader ambizioso e ingombrante avveniva dietro le quinte del potere ed era annunciata al pubblico, molto spesso, con la rimozione del suo ritratto dai grandi cartelloni che rendevano onore alla direzione del partito e dello Stato
un’Epurazione che Non Cancella i Dubbi su un’Economia in Affanno – In Unione Sovietica l’eliminazione di un leader ambizioso e ingombrante avveniva dietro le quinte del potere ed era annunciata al pubblico, molto spesso, con la rimozione del suo ritratto dai grandi cartelloni che rendevano onore alla direzione del partito e dello Stato. La Cina Popolare è comunista, ma il suo stile è alquanto diverso. Qualche giorno fa, quando ha capito che le nuvole si stavano addensando sulla sua testa, Bo Xilai, capo del partito nella grande città-isola di Chongqing (quasi 29 milioni di abitanti), ha convocato alcuni giornalisti stranieri nel suo ufficio, li ha accolti in un impeccabile completo scuro, ha ammesso di avere fatto qualche errore nella gestione della sua città e di avere dato troppa fiducia al suo principale collaboratore, ma ha trasmesso ai suoi fedeli un messaggio rassicurante. Conoscevamo le sue aspirazioni. Sapevamo che contava di essere ammesso al Comitato dei nove, vale a dire al gruppo ristretto del Politburo che governa tra l’altro l’alternanza del potere nelle due maggiori cariche dello Stato. Sapevamo anche che gli affanni di Bo erano cominciati quando il suo vicario e capo della polizia, Wang Lijun aveva trascorso una notte nel consolato americano di Chengdu, la capitale del Sichuan. Ne era uscito il mattino seguente, era stato arrestato ed è ora oggetto di un’indagine per corruzione. Ma Bo, pur ammettendo qualche errore, appariva sereno e imperturbabile. I giornalisti presenti non ne sono stati sorpresi. In questi ultimi tempi il boss di Chongqing ha messo in scena una sorta di entusiasmante campagna elettorale, poco conforme allo stile della leadership cinese. Ha partecipato a molti eventi pubblici, ha pronunciato discorsi, ha denunciato il crescente divario tra povertà e ricchezza nella società cinese, ha dichiarato che la crescita economica e una maggiore eguaglianza sono finalità compatibili. E ha condito queste implicite critiche al governo con un tripudio di bandiere rosse e canti popolari che appartengono al vecchio repertorio della Rivoluzione culturale. L’accostamento è certamente demagogico e ricorda certi toni nostalgici di Vladimir Putin per la vecchia patria sovietica. Ma il suo programma non è troppo diverso da quello che adottano le opposizioni delle grandi democrazie, sulle due sponde dell’Atlantico, quando promettono che i loro governi, non appena andranno al potere, sapranno garantire contemporaneamente il rigore dei bilanci e la crescita del Pil (prodotto interno lordo). Ma la Cina Popolare non è una democrazia, e la sola opposizione possibile è quella che si esprime secondo le liturgie del regime nelle stanze sorde e mute della Città Proibita. Pochi giorni dopo la conferenza stampa di Bo, il Primo ministro Wen Jiabao ha chiuso la sessione annuale del Parlamento cinese con un discorso in cui, dopo avere descritto la situazione economica del Paese e dichiarato che la Cina ha bisogno di una radicale riforma politica, ha invitato il vertice del partito nella città di Chongqing a «riflettere seriamente e a trarre qualche lezione dal caso Wang Lijun». Non era un semplice ammonimento. Era l’annuncio cifrato della decisione che sarebbe stata presa ieri quando Bo e il suo vicario sono stati bruscamente destituiti. Dietro questa lotta di potere al vertice dello Stato non vi sono soltanto ambizioni personali. I due discorsi pronunciati dal premier Wen Jiabao all’Assemblea del Popolo lasciano intravedere una situazione economica e sociale piena d’incertezze. Nello scorso settembre la ribellione di Wukan, una piccola città nella provincia del Guangdong, non è stata una delle numerose ma effimere fiammate popolari che si accendono quasi ogni giorno nell’immenso territorio cinese. Il governo locale lo ha capito e ha avuto il merito di trattare l’evento con grande prudenza. Ma il fenomeno rivela l’esistenza di un rabbioso malessere sociale. Il fossato tra ricchezza e povertà si allarga. Le spese sanitarie dello Stato sono insufficienti e costringono i cinesi a risparmiare una grossa parte del loro reddito per i malanni futuri. L’«indice della felicità», una misura del benessere popolare, registra cifre decrescenti. Il numero dei «senza fissa dimora», che si spostano come nomadi da una città all’altra, è pari grosso modo al doppio della popolazione tedesca. Il governo ha adottato alcune misure e promette di prenderne altre: l’aumento della spesa sanitaria, un fondo pensione per gli agricoltori, un graduale aumento dei salari, maggior credito alle piccole imprese, forse qualche provvedimento fiscale sui redditi più elevati. Ma la crisi dei grandi Paesi importatori dell’Occidente, insieme all’aumento della spesa pubblica, del costo del lavoro e del petrolio importato, avranno un effetto negativo sulla crescita dell’economia nazionale. Non è sorprendente che il governo cinese, negli scorsi giorni, abbia annunciato un aumento del Pil, per l’anno in corso, pari al 7,5%. Sino a poco tempo fa molti osservatori sostenevano che soltanto una crescita più elevata, intorno al 10%, avrebbe permesso al governo cinese di evitare i malumori di una società dove la grande modernizzazione ha prodotto molte diseguaglianze e grandi aspettative insoddisfatte. Bo Xilai ha cercato di rappresentare questi malumori con una campagna molto demagogica e ha pagato il prezzo della sua imprudenza. Ma la sua eliminazione non basta ad assicurare il futuro del Paese. I nuovi leader, destinati a prendere possesso delle loro cariche all’inizio del 2013, avranno un compito che non concerne soltanto i loro connazionali: quello di evitare che la Cina divenga il più grande malato del mondo.