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 2012  marzo 15 Giovedì calendario

FANTASCIENZA E GIOCHI. QUEI MICROVISIONARI CHE CI FANNO SOGNARE

Spesso, per evocare la discesa nelle micro-dimensioni, si ricorre a Viaggio allucinante, il film del 1966 in cui un’équipe medica viene rimpicciolita, imbarcata in un micro-sottomarino e iniettata nel corpo di uno scienziato al fine di rimuoverne un ematoma cerebrale. Apoteosi di una miniaturizzazione umana di tanti capolavori del cinema, Viaggio allucinante si addentra però solo in parte fino alla dimensione molecolare del nano-tech. I nostri costituenti biologici, del resto, sono osservabili su diverse grandezze scalari, al discrimine tra l’unità del micrometro (un milionesimo di metro) e quella, appunto, del nanometro (un miliardesimo di metro): se una cellula misura tra i 10 e i 20 micrometri, una molecola di microRNA misura solo 30-40 nanometri, più o meno quanto il virus dell’epatite.
Allo stesso modo, tanta fantascienza classica tra gli anni 40 e 50 — la cui vertigine visionaria sembra anticipare temi e atmosfere nanotech — si svolge, a rigore, tra i centimetri e i micrometri. Questo vale per i «neoterics» di Microcosmic God di Theodore Sturgeon (’41), micro-specie che si ribella al biochimico che l’ha creata; per Waldo, l’operatore dell’omonimo racconto di Robert H. Heinlein (’42) che controlla mani meccaniche che controllano altre mani più piccole, in catena discendente; e per i sopravvissuti del crash interplanetario in Surface Tension di James Blish (’52), che lasciano, su un pianeta alieno, una discendenza di micro-umanoidi acquatici. Perché il nanotech irrompa nell’immaginazione letteraria, bisogna aspettare la sua emersione nella scienza ufficiale.
Per un paradosso apparente, la parabola centrale di tale emersione è estesa tra due sequenze a loro volta «ibride», tra rigore di metodo e slancio visionario. La prima è il celebre discorso al Caltech (29 dicembre 1959) di Dick Feynman, sintomatico fin dal titolo («C’è molto spazio, là in fondo»), in cui il grande fisico prefigura le possibilità di manipolazione-condensazione della materia (fino a stipare i 24 volumi dell’Enciclopedia Britannica «sulla capocchia di uno spillo») e ipotizza — citando l’amico Albert R. Hibbs, una nano-medicina proprio alla Viaggio allucinante, in cui sia possibile «inghiottire il chirurgo» e farlo viaggiare nel sistema sanguigno. La seconda sequenza è l’uscita, nel 1986, del libro controverso di un ingegnere del MIT, Eric Drexler (Engines of Creation), dove si fantastica di nano-macchine e nano-robot mimetici delle macchine biologiche (dai ribosomi agli enzimi).
In mezzo, si susseguono le tante, fitte sequenze concettuali e operative che permetteranno di penetrare una dimensione, quella nano, in cui — è bene ricordarlo — si arriva a contatto con le dinamiche controintuitive del mondo quantistico, dove un elettrone può, a differenza di una biglia, attraversare un recipiente. Di tutte queste sequenze (dalla messa a punto del «microscopio a scansione a effetto tunnel» — che consente di osservare il mondo atomico — all’introduzione del termine «nanotecnologia» nel 1974 a opera di Norio Taniguchi), quella decisiva si svolge nel settembre 1985 all’Università Rice di Houston, quando il più tenace oppositore di Drexler, il chimico Richard Smalley (con il collega Robert Curl e l’inglese Harry Kroto) scopre la nanostruttura del carbonio 60. Paragonato da Kroto alle cupole geodesiche a «pallone da calcio» dell’architetto Buckminster Fuller (cioè un icosaedro tronco come quelli disegnati da Leonardo e Keplero), il fullerene è la vera cesura dell’ascesa nanotech.
Oggi, a più di 25 anni da quella scoperta, la nano-dimensione vede decine di applicazioni, dalle marmitte catalitiche agli abbronzanti, dai lettori cd ai processori dei pc (sempre più piccoli, veloci e densi di informazione), dai materiali sportivi alla diagnostica medica. E ha fatalmente invaso l’immaginario artistico-mediatico, dal cinema (i «naniti» di Star Trek) ai videogame, passando per la nuova narrativa, fantascienza in testa: basti pensare all’Era del diamante del cyberpunk Neal Stephenson (’96, con una Shanghai in cui il nanotech è diffuso come l’energia elettrica); a Preda di Michael Crichton (2004, con sciami di nano-robot che attaccano l’uomo); o a Lazarus Vendetta di Robert Ludlum e Patrick Larkin (2005, con gli ambigui «nanofagi», proiezione apocalittica delle nano-terapie oncologiche).
Ma per il futuro, la sfida sta tutta nella contrapposizione tra Drexler e Smalley: tra la possibilità che il «nanotech» riproduca le dinamiche del mondo biofisico per interagirvi e uno scetticismo che vede ostacoli quasi insormontabili, dalla difficoltà a «istruire» le nano-macchine (sul modello del rapporto geni-proteine) a quelle di manipolazione selettiva degli atomi. Rispondendo più a Feynman che a Dexler, Smalley notava come non ci fosse poi così tanto spazio, «là in fondo».
Sandro Modeo