Giorgio Montefoschi, Corriere della Sera 15/03/2012, 15 marzo 2012
MONTAIGNE, L’UOMO MISURA DI TUTTE LE MISERIE
Nel secondo libro dei Saggi — che Bompiani presenta nella traduzione riveduta e aggiornata di Fausta Garavini, basata sul testo critico del 1998, stabilito da André Tournon — Michel Eyquem de Montaigne, avendo superato da un pezzo i quarant’anni, descrive fisicamente se stesso. Dice d’avere una corporatura robusta e forte, pur essendo di statura un po’ sotto la media; un viso non grasso ma pieno; mani impacciate; indole fra il gioviale e il malinconico, moderatamente sanguigna e calda. «Le mie condizioni fisiche, insomma», conclude, «vanno molto d’accordo con quelle dell’anima. Non c’è nulla di vivace: c’è solo un vigore pieno e saldo».
Nacque, da nobili genitori, nel 1533, in una regione di confine fra la Guyenne e il Pèrigord. La sua infanzia, «governata in maniera dolce e libera», fu esente da rigorose soggezioni. Dai maestri del collegio di Bordeaux, nel quale entrò a sei anni, imparò presto il latino e le discipline umanistiche; dai contadini che vivevano attorno al castello di famiglia, la sapienza vera: che consiste nel seguire in tutto e per tutto la natura. Più tardi, studiò diritto; entrò nel tribunale di Bordeaux e ci rimase tredici anni; si ritirò, nel 1570, nella proprietà ereditata da suo padre, in cui riceveva persone importanti: persino il futuro re Enrico di Navarra; non si sottrasse — nella Francia devastata dalla guerra civile — a interventi politici e di mediazione; viaggiò, nei Pirenei e in Italia, anche per curarsi il «mal di pietra» (i calcoli) di cui soffriva moltissimo; fu eletto sindaco di Bordeaux (nel 1581) e rieletto una seconda volta; morì il 13 settembre del 1592: mentre preparava una nuova edizione dei suoi Saggi.
Queste, in estrema sintesi, le notizie biografiche di Montaigne: una biografia non ricchissima (che i lettori, volendo, potranno approfondire leggendo il volume di Sarah Bakewell, Montaigne, L’arte di vivere, recentemente pubblicato da Fazi). Del resto, la maggior parte del tempo della sua vita Montaigne la trascorse nel suo castello: nella torre d’angolo del suo castello. «A casa mia» scrisse, «mi ritiro un po’ più spesso nella mia biblioteca, da dove comodamente governo la mia casa. È di forma rotonda con un solo lato dritto, tre finestre di ampia e libera prospettiva. Mi piace che sia un po’ inaccessibile. Sotto di me vedo il giardino, la corte, il cortile e tutte le parti della casa. Qui sfoglio ora un libro, ora un altro, senz’ordine e senza programma, come capita; ora fantastico, ora annoto e detto, passeggiando, queste mie idee». I suoi autori preferiti (possedeva mille libri: un numero ragguardevole per l’epoca) erano Ovidio e Virgilio, Cicerone e Tacito, Platone e San Paolo, gli amatissimi Seneca e Plutarco — in particolar modo Plutarco, perché in ogni episodio della storia vedeva l’uomo. Ma Montaigne non aveva una buona memoria; presto dimenticava quello che aveva letto. Così, tratte dai libri di questi autori, sulle travi del soffitto, aveva fatto scrivere alcune frasi. Per esempio, questa di Euripide: «Come puoi considerarti un grande uomo, quando basta il minimo incidente di percorso per atterrirti?». Oppure, questa frase tratta dalla Storia naturale di Plinio il Vecchio: «La sola certezza è che niente è certo e che nulla è più misero e superbo dell’uomo».
L’uomo, e soltanto l’uomo, con le sue incertezze e le sue paure, le sue debolezze e le sue passioni, la sua viltà e il suo coraggio, la sua pazienza e la sua insofferenza, il piacere e il dolore, è il protagonista dei Saggi. Dio, in questo meraviglioso libro tagliente e morbido, sfuggente e netto, continuamente modificato e arricchito, è completamente assente. Certo, un essere supremo dotato di ragione e armonia deve aver creato l’universo e l’uomo, e noi ne vediamo i segni; ma al di là di quei segni, al di là delle nostre immaginazioni terrene, di questo essere supremo noi non possiamo sapere nulla. Dio è inconoscibile. Pensare di conoscerlo è il «prodotto di una straordinaria ubriachezza dell’intelletto umano». Pitagora, che più di ogni altro s’era avvicinato alla verità, riteneva che «la cognizione di questa causa prima, di questo essere degli esseri, doveva restare indefinita, non stabilita, non dichiarata: che essa non era altro che l’estremo sforzo della nostra immaginazione verso la perfezione». L’uomo in realtà, non sa nulla. La sua presunta sapienza — come ci ricordano l’Ecclesiaste e San Paolo — non è altro che un travaglio e un tormento che ci fa sprofondare negli abissi infernali. «L’uomo più saggio che ci sia mai stato, quando gli fu domandato che cosa sapeva, rispose che sapeva di non sapere nulla». Eppure, siamo figli di Dio, di questo essere sconosciuto; e una scintilla del suo «divino sapere» la possediamo fin dalla nascita. Per riconoscerla, dobbiamo farci umili e ignoranti, diventare «semplici». Gli uomini veramente sapienti sono come le spighe di grano: «Esse si elevano e si innalzano, la testa dritta e fiera, finché sono vuote; ma quando sono colme e piene di grano nella loro maturità, cominciano a diventar umili e ad abbassare il capo. Hanno rinunciato alla loro presunzione e riconosciuto la loro condizione naturale».
Dove conduce la sapienza «semplice»? In primo luogo a considerare che il bene più prezioso è la salute: la sola cosa «che meriti in verità che uno vi dedichi non solo il tempo, il sudore, la fatica, ma anche la vita per ottenerla; poiché senza di essa la vita viene a esserci penosa e fastidiosa». In secondo luogo — ma in pratica nello stesso momento — a non guardare davanti, bensì dentro noi stessi. Guardando dentro noi stessi, scopriamo molte più verità di quante non immaginiamo; e impariamo tantissimo. Scopriamo, per esempio, che se facciamo come gli animali i quali, nel momento in cui decidono di ritirarsi nella loro tana cancellano le tracce davanti alla tana, subito diventiamo padroni della nostra vita e non abbiamo più bisogno dei falsi o illusori giudizi del mondo: perché «non è per mostra che la nostra anima deve rappresentare la sua parte, ma nel nostro intimo, dove nessun occhio penetra se non il nostro». Scopriamo che siamo fatti di anima e di corpo: «Che la nostra intelligenza, il nostro giudizio e le facoltà della nostra anima in generale soffrono secondo i movimenti e le alterazioni del corpo», tanto che se la salute ci arride o il sole splende siamo amabili, laddove se solo un alluce ci duole diventiamo corrucciati e intrattabili. Scopriamo che, al pari della natura, che è in perpetuo mutamento, anche la nostra anima è in perpetuo mutamento, scossa dal dubbio, preda dei sentimenti, fragile «come un fragile scafo sorpreso sul mare da un vento furioso»; scopriamo che i sensi ci ingannano; che mai si può stabilire nulla di certo, perché «non c’è alcuna esistenza costante, né del nostro essere né di quello degli oggetti. E noi e il nostro giudizio, e tutte le cose mortali andiamo scorrendo e rotolando senza posa». Infine, scopriamo il sentimento innato che ci lega agli esseri e alle cose che popolano l’universo: «Perché noi non siamo né al di sopra né al di sotto del resto: tutto quello che è sotto il cielo è sottoposto a una stessa legge e a una stessa sorte… Le anime degli imperatori e dei ciabattini sono fatte su uno stesso stampo… Il modo di nascere, di nutrirsi, di agire, di muoversi, di vivere e di morire delle bestie è simile al nostro… Gli animali sono molto più regolati di quanto siamo noi, e si tengono con maggior moderazione entro i limiti che la natura ha prescritto»: dunque, scopriamo e impariamo che «è più sicuro lasciare alla natura, che a noi, le redini della nostra condotta».
La moderazione è la maggiore delle virtù. Questo lo impariamo a poco a poco — e per il nostro vantaggio — esercitandoci (talvolta con fatica, dal momento che virtù «facili» non esistono) in tutto ciò che umanamente significa la parola moderazione. Vale a dire: nel saper ascoltare piuttosto che nel prevaricare quando conversiamo; nel saper cogliere le novità e le diversità quando viaggiamo; nel saper riconoscere che non c’è piacere disgiunto dal dolore; nel saper godere dei nostri sensi, senza lasciarci travolgere dai nostri sensi; nel saper accettare la giovinezza e la vecchiaia; nel saper «trattenere l’anima fra i denti», perché, come diceva Seneca «la legge di vivere, per la gente dabbene, non è di vivere quanto a loro piace, ma quanto devono»; nel non avere paura della morte; nel saper affrontare serenamente la morte.
Montaigne era ossessionato dalla idea della morte. Il suo libro — sul quale sono state scritte biblioteche — da molti, quasi da tutti, è stato definito un autoritratto: il breviario laico di un uomo che in definitiva non vuole far altro che specchiarsi, che parlare di se stesso, felice della sua vita. Invece è qui, proprio qui, che sta la sua straordinaria bellezza, insieme alla inquietudine che produce: nell’essere un autoritratto e nello stesso tempo — come intelligentemente suggerisce Fausta Garavini — una galleria di specchi in cui non si riflette un solo ritratto, bensì una folla di ritratti, quanti corrispondono alle infinite nature sempre mutevoli, sempre cangianti degli esseri umani. E nell’essere, certamente, un breviario laico rassicurante, un breviario laico che infonde saggezza, ma anche, e soprattutto, un libro in cui il suo Autore cerca aiuto e conforto: nei libri e nelle parole di saggezza che gli altri libri contengono e parlano della vita e della morte, nei volti dei suoi simili sui quali sono incisi i segni della vita e della morte, negli esempi della storia che raccontano la vita e la morte. La sua prosa — che Montaigne a torto disprezzava, ritenendola aspra e sregolata, molle e fiacca — questa oscura, dolcissima, incerta, inafferrabile, fluttuante marea che è la vita, non fa altro che riprodurla con la giusta ansia; e la giusta imprecisione. Non a caso, una grande ammiratrice di codesto flusso era Virginia Woolf.
Giorgio Montefoschi