Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  marzo 15 Giovedì calendario

I TAGLI IMPOSSIBILI AI CONSIGLI REGIONALI —

Da dieci mesi il sindaco di Latina Giovanni Di Giorgi assapora il brivido dell’ubiquità. Ci vuole un fisico bestiale per trovarsi contemporaneamente nel municipio della sua città e a settanta chilometri di distanza, in via della Pisana, a Roma, sede del consiglio regionale del Lazio.
Ma il fisico da solo non basta. Le leggi sono chiare: il sindaco di un capoluogo di Provincia non può essere allo stesso tempo consigliere regionale. Ci sono però i regolamenti interni. E siccome i suoi stessi colleghi dovrebbero decretarne l’incompatibilità, le cose vanno per le lunghe. Nel suo caso, poi, c’è stato un ricorso al Tar contro l’esito delle comunali del 17 maggio 2011. Un’altra scusa provvidenziale per prolungare la melina in attesa della sentenza. Puntualmente arrivata una decina di giorni fa: il sindaco di Latina è stato eletto regolarmente. Ragion per cui ora non ci sono più scuse. Di Giorgi dovrebbe lasciare la Regione e ovviamente i relativi emolumenti. Con molta calma, però: a oggi risulta ancora consigliere nonché componente di ben quattro commissioni.
Va da sé che in nessun altro Paese occidentale sarebbe possibile. Tanto che questo caso può essere assunto come paradigma di un sistema nel quale lasciare una poltrona, anche se la legge lo impone, rappresenta evento più tragico di un lutto familiare.
Possiamo perciò immaginare il dramma nel quale la manovra bis dello scorso agosto targata Giulio Tremonti ha precipitato le Regioni. Undici Regioni, dal Lazio all’Umbria, hanno fatto ricorso alla Consulta rivendicando autonomia decisionale. L’obiettivo è l’articolo 14 di quel provvedimento, che imporrebbe ai consigli regionali, dalle prossime elezioni, un dimagrimento di 343 poltrone. Con un risparmio, per le casse pubbliche, di almeno un centinaio di milioni l’anno fra retribuzioni e altri benefit.
Succede così che la Regione Liguria, come riportato ieri dal Secolo XIX, abbia deciso di rinviare il taglio dei consiglieri per attendere il pronunciamento della Corte costituzionale. Perché, ha spiegato il presidente del Consiglio Rosario Monteleone, «è inutile adempiere a una prescrizione di legge che potrebbe decadere perché anticostituzionale». Non fa una grinza. Ma il fatto è che la Liguria rischia di perdere addirittura un quarto dei consiglieri. Le Regioni con meno di due milioni di abitanti non potrebbero avere più di trenta poltrone, mentre la Liguria, con un milione 615 mila residenti, ne ha 40. Ancora più doloroso il taglio per l’Abruzzo, da 45 a 30. Mentre la Calabria, dove un disegno di legge per riportare a 40 le poltrone (innalzate a 50 nel 2005) avanza placidamente in commissione, deve cercare di non perdere 9.253 abitanti: perché in questo caso, con una popolazione scesa sotto i due milioni, pure il suo Consiglio dovrebbe scendere a 30. Un massacro, dal quale non si salverebbero Puglia, Campania, Basilicata, Piemonte... Perché le Regioni in regola da subito con i parametri tremontiani sono solo due: Lombardia ed Emilia Romagna. Veneto e Toscana si sono adeguate.
Per non parlare delle Regioni a statuto speciale quali la Sicilia, che ha 90 consiglieri (sulla carta da ridurre a 50), il Friuli-Venezia Giulia (da 59 a 30), la Valle D’Aosta (da 35 a 20) o la Sardegna, dove le poltrone dovrebbero diminuire da 80 a 30. Ma l’autonomia in questi casi fa miracoli. Il 7 marzo il Senato ha trasformato i colpi di scure in sforbiciatine. I consiglieri sardi dovrebbero ridursi da 80 a 60, i siciliani da 90 a 70, mentre per il Friuli-Venezia Giulia si parla di una decina di poltrone in meno. Le resistenza del Trentino-Alto Adige ha ottenuto risultati ancora migliori. L’articolo che riguardava la riduzione dei Consigli di Trento e Bolzano è stato stralciato. Finito, per ora, su un binario morto. Al pari di altre «cattiverie» della manovra agostana. Insieme al taglio dei consiglieri, per esempio, era stato sancito il principio che «il trattamento economico dei consiglieri regionali sia commisurato all’effettiva partecipazione ai lavori del Consiglio». Principio che però è rimasto in gran parte lettera morta. Anche perché gli esempi che arrivano dalle altre amministrazioni non sono esattamente edificanti. Memorabile la performance del consigliere comunale di Genova Aldo Praticò che il 7 febbraio si è presentato alle 14.48 e alle 14.49 era già fuori. Riscuotendo ugualmente i 97 euro e 61 centesimi del gettone di presenza. Memorabile almeno quanto quella di quel consigliere comunale di Palermo che figurava lavorare in una impresa di famiglia a 1.600 euro al mese. Stipendio lievitato fino a 10 mila euro dopo la sue elezione, e regolarmente rimborsato dal Comune alla ditta dove il Nostro, occupatissimo in municipio, non si presentava quasi mai. A dimostrazione di come il gioco dei rimborsi e dei gettoni di presenza può essere micidiale.
Quella delle retribuzioni dei politici locali è una giungla inestricabile. Tanto nelle Regioni, dove sopravvivono differenze enormi e ingiustificate: un consigliere della Sardegna porta a casa il doppio del suo collega abruzzese e in Lombardia e Puglia l’indennità di fine mandato è 2,4 volte più favorevole che nel resto d’Italia. Quanto nei Comuni: il sindaco di Bressanone ha una retribuzione, rapportata alla popolazione, 68 volte superiore rispetto a quella del sindaco di Milano, e il gettone di presenza dei consiglieri comunali romani è di 42 euro inferiore rispetto a quello degli agrigentini.
Sergio Rizzo