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 2012  marzo 15 Giovedì calendario

INSEGUO LE ELEZIONI AMERICANE CON SOLI 3 MILA EURO IN TASCA


Ho coperto le primarie del Michigan spendendo 345 dollari, compresi i 155 dollari del volo da New York e i 38 dell’autobus per Cleveland. Sono parte dei soldi che ho ricevuto dai lettori del Trading Post, il blog in cui racconto il mio viaggio alla rincorsa delle primarie repubblicane. Dopo essere stato in Iowa, South Carolina, Florida, Nevada e Colorado avevo finito i pochi soldi sul conto e ho provato a fare una raccolta fondi online, pubblicizzata su Twitter e sul blog, per poter continuare il mio viaggio. Avevo chiesto 2.000 euro per contribuire alle spese di viaggio, e avevo stabilito due settimane per la raccolta. Dopo due giorni però ero già oltre quota 2.000 e alla fine ho ricevuto 3.543 euro, quasi il doppio. Grazie ai miei lettori mi sono potuto quindi rimettere in viaggio, al seguito di questo carrozzone che sono le primarie americane.
Ho assistito a piccoli comizi dei candidati in minuscole cittadine sperdute, ho visto i candidati parlare in ristoranti, alberghi, casinò, università, aziende, negozi per cani, capannoni, magazzini, negozi d’armi e centri culturali filippini. Sei in una piccola cittadina di periferia distante miglia e mondi interi dal palcoscenico della politica nazionale, ma basta aprire una porta per ritrovarti a Washington, sotto le luci della Cnn e di Fox News e fra la stessa corte di giornalisti e membri dello staff che sono quasi diventati una famiglia.

Beffare la security

Fanno quasi tutti parte della traveling press, ovvero la stampa che segue ogni candidato in autobus e aereo per tutta la campagna elettorale. Ai comizi di Mitt Romney, il favorito, è ancora più evidente. Vedi sempre le stesse facce, a cominciare da Michael, del New York Times che avevo incrociato per la prima volta al bar del Marriott di Des Moines, e Sarah, la reporter di Cbs ai cui piedi mi ero nascosto a Denver pur di assistere alla notte elettorale di Romney in Colorado. Già, mi ero dovuto nascondere. L’ufficio stampa di Romney infatti impedisce alla stampa straniera l’accesso alle sale dove il mormone parlerà la notte delle elezioni, segregandoci sempre in una stanzetta adiacente con dei tavoli e un televisore acceso su Fox News. È impossibile spiegargli che lo stesso televisore potremmo guardarlo a New York o in Italia. Nelle ultime occasioni ho quindi provato a imbucarmi. A Las Vegas eravamo in pochi e ho ottenuto l’accredito per la sala principale, a Denver non hanno sentito ragioni e dopo aver discusso per mezz’ora con tutti i responsabili sono semplicemente entrato indossando il pass di qualche giorno prima. Il colore era lo stesso, la data diversa e nessuno se ne è accorto, neanche i servizi segreti che poco prima mi avevano perquisito da cima a fondo.
A Novi (Michigan) è andata diversamente. Ho temporeggiato aspettando che le due guardie alla porta si distraessero, poi sono entrato ostentando la disinvoltura di chi non sta facendo nulla di male. Ho visto i sostenitori di Romney ballare la musica anni ’60 della Motown, ho assistito al discorso dell’ex governatore del Massachusetts da meno di due metri e mi è andata bene un’altra volta, anche se a fine serata mi hanno raccontato dell’arresto di Natasha Loder, corrispondente da Chicago dell’Economist che voleva entrare in sala senza il pass.
A parte questi piccoli ma divertenti inconvenienti, seguire le primarie repubblicane è un’esperienza estremamente affascinante, soprattutto facendo couchsurfing, ovvero venendo ospitato da sconosciuti che mi mettono a disposizione un divano, quando va male, o una bella camera da letto. Ho cominciato per risparmiare i soldi del motel che non potevo più permettermi, ma poi ho capito che in questo modo avevo anche la fortuna di osservare da vicino le persone e le comunità locali. Sono passati quasi tre mesi da quando questo viaggio è cominciato, dalla mia prima notte a Des Moines, Iowa, passata in un motel da 40 dollari a notte. Era il primo gennaio, e da allora sono stato ospitato da due ragazze a Charleston, in South Carolina, da un ricercatore italiano a Miami, da alcuni amici di famiglia a St. Petersburg, in Florida, da un fotografo cinquantenne a Las Vegas, da un disoccupato che viveva sulla moquette dell’ex fidanzata, tra l’altro per nulla contenta, a Denver, da un avvocato di sessanta anni a Detroit e da un’ex soldatessa a Cleveland.
Tutto questo perché non volevo coprire le elezioni presidenziali seduto nel mio «ufficio», generalmente uno Starbucks all’angolo fra 69th street e 1st avenue a New York, dove probabilmente avrei letto i giornali americani e scritto i miei articoli attraverso gli occhi di qualcun altro. Il viaggio è cominciato a Charleston, Iowa, dove ho assistito al dibattito fra i candidati e ho preso parte a un comizio di Newt Gingrich nella pancia di una portaerei, coi suoi sostenitori raccolti in preghiera, a mani giunte e testa bassa, per chiedere a Dio di aiutarli a sconfiggere Obama. Quella sera, quando tutti i miei colleghi sono tornati in albergo, io ho dovuto fare le cinque della mattina in un club con le ragazze che mi ospitavano. Perché, ovviamente, quando fai couchsurfing quasi nessuno ti offre le chiavi di casa sua. Sempre a Charleston, parlando con un signore afroamericano per strada che mi aveva detto di aver votato per Gingrich, ho scoperto che migliaia di democratici avevano affollato le urne repubblicane per boicottare Romney. Dopo un lungo viaggio in pullman attraverso South Carolina, Georgia e Florida, sono poi arrivato a Miami, dove ho preso parte all’incontro fra lo stesso ex governatore del Massachusetts e la comunità ispanica. Ero l’unico giornalista straniero presente. È stato divertente vedere come Romney cercava di attirare il voto latino senza sbilanciarsi sull’annessione di Porto Rico e negando di sentirsi messicano, nonostante suo padre sia nato in una colonia mormone nello Stato di Chihuahua, Messico.

Taxi e clochard

A Las Vegas ho visto Donald Trump concedere a Romney il proprio sostegno e ho assistito a un comizio di Gingrich in un ristorante, dove ho conosciuto Tony, un sostenitore col cappello da cowboy che si vantava di essere il cugino dell’attore Paul Sorvino. Nella città dei casinò oltretutto non esistono i mezzi pubblici, i taxi costava un capitale e ho così cominciato a fare l’autostop a «rischio limitato», ovvero a chiedere passaggi a giornalisti o sostenitori dei candidati. Fra gli altri sono finito nell’auto del corrispondente da Washington del Toronto Star, della fotografa del Las Vegas Sun, dei giornalisti della radio e della tv svizzere, di uno scrittore pro Santorum, di una ricercatrice albanese volontaria di Ron Paul e di un padre di famiglia sostenitore di Romney, che prima di dirmi di sì ha voluto vedere il mio tesserino da giornalista.
Il viaggio dal Nevada al Colorado è stato invece il più faticoso. Ho passato sedici ore su un autobus affollato attraverso due deserti e poi sulle Montagne rocciose, con un barbone seduto dietro di me che mi ha tossito addosso tutte le sigarette fumate di nascosto nel bagno del pullman. È stato il tragitto peggiore fra i tanti autobus e treni su cui sono salito accompagnato da un’America diversa, fatta di tossici, fuorilegge, uomini con valigie enormi, amish, barboni, immigrati illegali o poveri che semplicemente non si possono permettere un biglietto aereo.
A Denver, grazie a un italoamericano di nome Tom che lavorava alla sua campagna elettorale, ho avuto la fortuna di intervistare Rick Santorum, che il giorno dopo avrebbe vinto le primarie in Minnesota, in Missouri e a sorpresa in Colorado. «He is a paisà», gli ha detto Tom mentre me lo presentava. Eravamo alla sede della società elettrica cittadina, nevicava e non riuscendo a trovare un taxi al telefono ero stato sul punto di lasciar perdere il comizio e tornarmene a casa. Il giorno dopo invece avevo in mano un’intervista con l’uomo del momento.

Andrea Marinelli