Michele Salvati, Corriere della Sera 14/03/2012, 14 marzo 2012
LA SUGGESTIONE PROPORZIONALE
Le ragioni di un governo buono o cattivo non sono legate in modo stretto alla legge elettorale. Le cause del cattivo governo nella seconda parte della Prima Repubblica non sono tanto dipese dalla legge proporzionale, ma dall’incoerenza e dai conflitti interni della coalizione necessaria a escludere il Pci dal governo: è questa esigenza che impediva l’alternanza. Conferma? Nella prima parte della Prima Repubblica, con la stessa legge proporzionale, c’è stato buon governo perché la coalizione capace di escludere il Pci era più coerente. È dunque la coerenza dei ceti di governo a determinare un governo buono o cattivo. La conclusione è confermata da un’analisi di come ha funzionato la Seconda Repubblica. Per la pressione a raschiare il fondo del proprio barile, pur di vincere, il nostro maggioritario ha prodotto maggioranze eterogenee e incapaci di governare bene, salvo che per brevi periodi.
Dobbiamo allora tornare al proporzionale? Al di là della critica che con un sistema proporzionale i cittadini potrebbero non essere in grado di scegliere il governo, due sono le critiche che si potrebbero aggiungere. La prima è che, anche in questo caso, l’esito cui si arriverebbe sarebbe un governo di coalizione: che cosa assicura che questa coalizione sarebbe più capace di buon governo di quelle che si producono in un contesto maggioritario e bipolare? La seconda è che la coalizione includerebbe sempre i partiti collocati al centro dello schieramento, che ora si alleano a destra, ora a sinistra. Ed è possibile che il capo del governo sia (quasi) sempre espresso da uno di questi partiti (i due forni di Andreotti?). Infine, se l’alleanza tra i centristi e uno dei due partiti «ragionevoli» alla loro destra o sinistra fosse numericamente insufficiente, e risultasse impossibile anche un’alleanza tra il partito di destra/sinistra e i partiti estremisti della sua parte, l’unica alternativa sarebbe una Grosse Koalition, simile a quella che oggi sostiene il governo Monti. È auspicabile?
La risposta dei proporzionalisti alla prima critica potrebbe essere che le coalizioni del proporzionale sarebbero di solito centripete, composte dai centristi e dalle forze più moderate che si collocano alla loro destra o alla loro sinistra, mentre le coalizioni bipolari del maggioritario includono di necessità partiti estremisti. Ora, non è detto che coalizioni centripete siano più capaci di buon governo di coalizioni centrifughe. Non è detto, però — suggeriscono i proporzionalisti — c’è qualche buon motivo per ritenerlo, se solo guardiamo a due fotografie: la fotografia di Vasto (Bersani, Di Pietro, Vendola) e la fotografia di Bersani (e perché non Alfano?) insieme a Casini, Fini e Rutelli.
E quale potrebbe essere la risposta alla seconda critica, ai «due forni»? Anzitutto che non si tratterebbe di due forni nel senso andreottiano: la Dc non c’è più, i partiti maggiori stanno oggi alla destra o alla sinistra del raggruppamento di centro, e nulla impedisce che il presidente del Consiglio sia espresso da loro. E poi, se i centristi hanno una maggiore probabilità di stare al governo, qual è il problema? Un’analogia con la situazione della Prima Repubblica sarebbe fuorviante. La democrazia era allora bloccata e l’alternanza era impossibile per la necessità di escludere i comunisti. Oggi la democrazia è sbloccata e alleanze di centrosinistra sono altrettanto legittime e possibili che alleanze di centrodestra. E gli stessi «due forni», a modo loro, consentirebbero all’elettore di indicare la direzione dell’alternanza. Se gli elettori assicurano un buon successo al partito riformista di sinistra (o di destra) e insieme anche ai partiti estremi di quella parte, essi mandano un messaggio di cui i partiti di centro non potranno non tener conto. Si potranno dunque avere governi forti, moderati e però con un profilo ideologico ben definito. Se poi saranno anche capaci di buon governo è tutto da vedere. Ma probabilmente, sostengono i proporzionalisti, saranno capaci di un governo migliore di quello che ha prodotto il bipolarismo sgangherato degli ultimi anni.
Non vorrei che questo articolo venisse letto come un’apologia del sistema proporzionale: non ho nulla contro alterazioni, mirate e modeste, di una pura logica proporzionale. Modeste però. E mirate a un bersaglio che contemperi principi democratici ed esigenze di buon governo. Oltre all’eliminazione dell’attuale impossibilità di scelta dei propri rappresentanti da parte degli elettori, una legge elettorale ideale dovrebbe consentire il raggiungimento di tre obiettivi: (a) coalizioni di governo forti, con una sufficiente maggioranza; (b) coalizioni centripete, non attraversate da contrasti interni insanabili; e (c) coalizioni potenzialmente alternative, che diano agli elettori una effettiva possibilità di scelta tra grandi orientamenti ideali. Sono queste le tre palle che un buon giocoliere elettorale dovrebbe tenere sospese per aria. Compito difficile, ma non impossibile.
Esiste questo buon giocoliere nell’attuale Parlamento? Una risposta positiva sfida il senso comune. E anche se il Parlamento fosse migliore, essa sfida un ben noto teorema di impossibilità: non si può chiedere ai partiti di riformare se stessi e il sistema in cui competono, quello che determina le loro convenienze di oggi. Eppure è proprio a loro che dobbiamo chiederlo e non ci resta che sperare che la situazione di emergenza induca a falsificare il teorema. Si tratta di un’emergenza economico-sociale, perché non si può sperare che la troppo breve cura Monti rimetta in sesto il Paese. Chi oggi pretende da Monti riforme che facciano tornare a crescere l’economia in tempi brevi non sa di che cosa parla: riforme dure e politicamente difficili dovranno continuare ben oltre il governo attualmente in carica.
E si tratta di un’emergenza democratica, di una anomalia seria rispetto alle democrazie decenti. L’anomalia non sta nel «governo tecnico», come impropriamente è chiamato, ma nella situazione di incapacità decisionale dei governi politici che l’hanno preceduto e che ha reso necessario un commissariamento della «politica normale». Purtroppo si tratta di una debolezza profonda della democrazia all’italiana, perché il governo Monti è una replica di quanto era avvenuto con i governi «tecnici» tra il 1993 e il 1995. Allora essi fecero seguito a governi «politici» in cui si sosteneva che stavamo vivendo nel migliore dei mondi possibili, mentre l’inflazione era il doppio che nel resto d’Europa e il debito si accumulava a ritmi vertiginosi. Il governo Monti fa seguito a un governo in cui il premier e il ministro del Tesoro sostenevano che la situazione era migliore che altrove, che tutto andava bene, mentre il Paese ristagnava da dieci anni, le spese pubbliche continuavano a crescere e nulla di serio veniva fatto per abbattere l’enorme debito pubblico.
Dagli anni Settanta in poi la democrazia all’italiana non è stata capace di buon governo. Da sola, una legge elettorale non può cambiare questo stato di cose. Ma può aiutare a cambiarlo, se è il segno di un’analisi almeno convergente, se non totalmente condivisa, sulle origini del cattivo governo, sulla necessità di un governo politico che non richieda periodici interventi di governi tecnici, e soprattutto sull’urgenza di intervenire. L’espressione «democrazia a rischio» è stata usata tante volte, e non di rado a sproposito. Ora credo sia perfettamente appropriata.
Michele Salvati