http://www.corriere.it, 15 marzo 2012
JOHN ELKANN DOMANI L’INCONTRO CON MONTI
Paese cambiato, mercato difficile
La solitudine della famiglia Agnelli
Il Premier avrà di fronte l’erede di Giovanni Agnelli, un giovane uomo assai diverso dal nonno. E, soprattutto, molto più solo
Domani John Elkann e Sergio Marchionne incontrano il premier Mario Monti a Palazzo Chigi per parlare del futuro della Fiat. Benché in programma da tempo, il colloquio sconta l’intervista dell’amministratore delegato al Corriere e il suo drammatico avvertimento: se non riuscirà a esportare abbastanza negli Usa, la Fiat chiuderà due dei cinque stabilimenti italiani, dove peraltro migliaia di persone sono già in cassa integrazione da tempo. Nonostante le rassicurazioni sulla capacità di vincere la scommessa, sono in pochi a credere che dall’Italia sia possibile esportare oltre Atlantico 400 mila vetture l’anno. Ma esiste un’alternativa? E il governo crede valga la pena di costruirla?
A Marchionne il premier potrà chiedere conto del progetto Fabbrica Italia che prometteva di produrre qui 1,4 milioni di auto entro il 2014, quasi il triplo del 2011, in un’Europa appesantita da troppe fabbriche. Ma a Elkann, presidente e primo azionista della Fiat, che cosa si può chiedere? Monti avrà di fronte l’erede di Giovanni Agnelli, un giovane uomo assai diverso dal nonno. E, soprattutto, molto più solo.
Il senatore Agnelli fu un grande protagonista della vita nazionale. Un Re senza corona che si stupiva se un Quandt, padrone della Bmw, lo veniva a trovare prendendo un volo di linea anziché l ’avion privé . E trovava normale avere in Fiat una foresteria degna di un grand hotel, anziché il servizio corretto e spartano di oggi. Ma soprattutto Agnelli poteva contare su quattro fattori ormai venuti meno: a) un patrimonio aziendale enorme; b) un house bank , Mediobanca, che dava tutela in cambio di rispetto e, talvolta, di relativa sottomissione come testimonia l’ampio potere attribuito a Cesare Romiti per vent’anni; c) un rapporto sindacale profondo, che poteva comportare tanto l’assedio di Mirafiori quanto l’accordo sul punto unico di contingenza Lama-Agnelli e la concertazione fino ai tre anni fa; d) l’appoggio concreto dei governi: finanziamenti agevolati e a fondo perduto, acquisizione delle aziende deboli del gruppo come Teksid, negazione dell’Alfa alla Ford, una politica dei trasporti pro gomma e anti ferrovia. Con Giovanni Agnelli, e prima di lui con Vittorio Valletta, la Fiat era l’Italia e l’Italia la Fiat.
Elkann, invece, è un soggetto del tutto privato. Laureato in ingegneria, nessuno lo chiama l’Ingegnere, a differenza del nonno che era per tutti l’Avvocato pur non avendo mai avuto sostenuto una causa. Il patrimonio aziendale si è molto ridotto. Tra il 1998 e il 2010 la Fiat Auto ha perso circa nove miliardi, una voragine colmata con emissioni azionarie della holding, cessione di partecipazioni e anche con il premio che General Motors pagò pur di non doversi prendere le quattro ruote di Torino. Negli ultimi undici anni i soci della Fiat hanno avuto 5 volte il dividendo, e non sempre rotondo, e 6 volte no, anche se debbono riconoscere a Marchionne una cospicua rivalutazione dei titoli. Ora, se la Fiat avesse bisogno di altri soldi, l’Exor, la holding degli Agnelli, ne avrebbe pochi da mettere e dovrebbe rinunciare alla diversificazione del portafoglio. Non a caso Marchionne ha promesso che mai più un euro di capitale verrà rischiato sull’auto.
La Fiat del 2012 non può più contare su Mediobanca che, d’altra parte, ha perso la centralità di un tempo. E il sistema finanziario le fa pagare normalmente il denaro. Per decenni alla Real Casa di Torino i prestiti costavano meno che alle altre imprese. Si parlò a lungo di tasso Fiat. Adesso la Fiat paga il denaro più delle multinazionali tascabili nostrane. E non parliamo della Chrysler, che viaggia sull’8%.
Il sindacato è diviso e sconfitto come ai tempi di Valletta. Non rappresenta più un problema: lo riconosce lo stesso Marchionne. Ma, aggiungiamo noi, non è nemmeno quel vincolo positivo che è stato storicamente nel Novecento costringendo le imprese a migliorare per recuperare gli aumenti salariali e come continua a essere alla Volkswagen per esplicito riconoscimento di Martin Winterkorn.
Al governo del Paese d’origine la multinazionale Fiat non ha più niente da chiedere: non vuole nulla, se non una non meglio specificata politica industriale, forse perché pensa che il governo non abbia nulla da dare. E dunque gli Agnelli di oggi, guidati da Elkann, possono rivendicare il diritto di decidere dell’eredità dell’Avvocato senza più i vecchi vincoli dell’Avvocato. Come se l’industria dell’auto basata in Italia non fosse più adatta a loro e loro all’auto. Ma il premier potrà limitarsi a registrare, come fosse un notaio, la svolta della Fiat, che Marchionne ha reso ufficiale con l’intervista al Corriere ma che era già leggibile nel momento in cui rinviava di anno in anno l’investimento nei nuovi modelli mentre la concorrenza dava il meglio di sè?
In altri Paesi, i colleghi di Monti avrebbero davanti tre, quattro, cinque produttori, nazionali ed esteri. In Italia non è così. Ormai tutti hanno capito quale errore sia stato aver concentrata l’intera produzione automobilistica in una sola mano. Chissà se il governo si è preparato all’incontro verificando in proprio se, decaduta Fabbrica Italia, esistano case internazionali interessate ai marchi e ai siti produttivi italiani. A cominciare dalla Volkswagen che da tempo fa intendere una passione per l’Alfa come, attraverso l’Audi, l’ha appena apertamente manifestata per la Ducati.
MASSIMO MUCCHETTI 15 marzo 2012 | 10:26