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 2012  marzo 15 Giovedì calendario

HO UN SOGNO: CHE L’EXPO SCOMPAIA DALLE NOSTRE VITE

Da Cannaregio a Shanghai, da Agadir a Berlino, ha costruito e progettato ovunque. Ha diretto per più di un decennio la rivista Casabella e per le sue cattedre sono passati migliaia di studenti. Vittorio Gregotti, 84 anni, è uno dei padri architettonici della Patria. Discusso e ultra premiato. Lo incontro in un piccolo albergo romano. Novarese, parla svelto con cadenza piemontarda. Spara a palle incatenate sui colleghi divi (uno dei pochi che salva è Norman Foster) ed è inorridito dall’abuso del rendering: la tecnica informatica per realizzare ed esporre i progetti. Spiega: «Il nostro dovrebbe essere un lavoro di approssimazioni successive. Se, invece, basta un clic per realizzare un progetto... si perde il rapporto tra la mente e la mano. Che è fondamentale». Le mani di Gregotti sono plasmate dall’uso della matita e del compasso. Il suo leitmotiv: l’architettura deve proporre un’ipotesi di ordine, non ritrarre il caos che ci circonda. Per questo, forse, basta citare uno dei cantieri aperti a Milano per suscitare in lui una smorfia di disgusto. Su Expo 2015, la grande esposizione universale che si terrà a Milano, è scatenato. Lo provoco.
Dica la verità: avrebbe voluto progettare lei qualcosa per l’Expo.
«Ma scherza? Io penso che l’Expo non andasse proprio fatta. È proprio l’Expo in sé che non ha più senso».
Perché?
«Perché con la crisi che c’è, è uno spreco. Costa troppo. E poi a che cosa serve?».
Me lo dica lei.
«Affari. Far girare soldi».
A Milano, verrà realizzato un grande orto botanico. L’Expo è dedicata alla fame nel mondo.
«Ecco: questo è un aspetto ancora più ridicolo. Durante la sua campagna elettorale, ho parlato con Pisapia. Gli ho detto: “Se vinci lascia perdere l’Expo”».
E lui che cosa ha risposto?
«Che c’era un problema politico».
Perché il Pd e Boeri sono favorevoli?
«Ecco. Lei li ha visti i progetti in zona Fiera?».
Sono grattacieli di tre archistar: Zaha Hadid, Arata Isozaki, Daniel Libeskind.
«Abominevoli».
Non esageri.
«Lì non c’è un piano complessivo. Gli architetti sono stati un pretesto per gli affari dei costruttori. Renzo Piano aveva realizzato un progetto che teneva conto della città, ma non è passato».
Zaha Hadid, Isozaki e Libeskind…
«Siamo di fronte a una gigantesca crisi di senso. È puro auto-manierismo. Prevale la firma e la logica mercantile. Sparisce la logica sociale e quella architettonica come pratica artistica. Come per la nuova sede della Regione: un altro contributo al non disegno urbano».
Lo chiamano il Mausoleo Formigoni.
«Effettivamente sembra costruito con lo scopo di esaltare il padrone di casa».
Abbiamo capito: gli ultimi interventi architettonici milanesi non l’hanno entusiasmata. Passiamo a Roma: le piace la Teca di Meyer?
«Meyer è un ottimo architetto. È già un miracolo quello che ha fatto. Ma ci sono dei difetti».
Il Maxxi, il Museo del Ventunesimo secolo, di Zaha Hadid?
«Ecco. Quella è pura calligrafia. Senza senso. E con errori elementari».
Per esempio?
«C’è più superficie di percorso che superficie espositiva. E poi come capita spesso a questi architetti di grande fama i prezzi delle loro opere lievitano».
Lei non ama le cosiddette “archistar”. Non lo è anche lei?
«Non amo il fatto che il successo di un architetto passi solo attraverso la sua visibilità pubblica. Non mi piace l’idea della firma architettonica che acquisisce un valore di mercato indipendentemente dal progetto. Detesto l’idea di un edificio che diventa strumento di marketing. O che viene concepito come se fosse un gigantesco pezzo di design che prescinde da che cosa c’è intorno».
Il Guggenheim di Bilbao…
«Quello è un caso a parte. Prima che intervenisse Frank Gehry, Bilbao, città ultra industriale, aveva subito una grave crisi economica. Creare l’attrazione ha avuto un senso».
L’Auditorium di Roma, progettato da Renzo Piano…
«Un’opera sfortunata. Che ha incontrato difficoltà durante la realizzazione. E che comunque con Roma non c’entra nulla. Tra gli architetti contemporanei c’è un’ideologia diffusa per cui ci si deve ribellare alla storia e al contesto».
Un sindaco, un presidente di Regione o un premier non hanno il diritto di voler lasciare il proprio segno in una città?
«Anche i Papi volevano lasciare un segno. Ma almeno si rivolgevano alle persone giuste. E poi non si può ragionare in termini di competizione: a chi lo fa più alto. Anche perché se no si finisce come Shanghai, con 2.000 grattacieli tutti diversi e paradossalmente non più distinguibili. Quando manca una regola, l’eccezione non esiste».
Tutta colpa degli architetti?
«No. Spesso è proprio la politica a decidere di progettare male e a chiedere agli architetti di disegnare edifici da star, bizzarrie di superficie. Senza pensare agli spazi pubblici che restano ai cittadini. Il disegno degli spazi che stanno tra le cose. È importante quanto il disegno delle cose stesse».
Lei ha scritto: «Bisognerebbe fare una progettazione di lungo periodo immaginando opere strutturali e non esibizionistiche». Lei è favorevole o contrario al ponte sullo Stretto?
«Contrario. Prima si finisca bene la Salerno-Reggio Calabria. Si migliori il sistema ferroviario siciliano. E poi il ponte costerebbe l’ira di Dio».
La Tav?
«Favorevole».
A Milano che cosa si dovrebbe costruire con urgenza?
«Intanto si dovrebbe fare un’analisi dei bisogni effettivi».
Si spieghi meglio.
«A Milano ci sono circa 85.000 vani vuoti. E allora perché si continuano a costruire abitazioni? Salvo quelle sovvenzionate a basso costo…».
Si dia una risposta.
«Per favorire gli affari dei costruttori».
L’industria edile può trainare l’economia.
«Già. Ma si dovrebbero scegliere le case più necessarie alla collettività».
Lei è in odor di teoria della decrescita.
«Credo si debba fare appello alla ragione. La ragione è un modo per mettersi in relazione con la società e con la propria storia. Il suolo va consumato con più parsimonia e pensando che la città europea dovrebbe avere una morfologia e un disegno preciso».
Gregotti, sta parlando di ruolo sociale dell’architettura?
«Certo. Un ruolo che mi appassiona, ma che sembra appassionare poco la politica».
Architettura sociale. Lei ha progettato lo Zen. Il degradatissimo quartiere palermitano spesso portato a esempio di cattiva progettazione.
«Io rivendico il progetto. Qualche anno fa ho proposto pure di portarlo a termine».
Non è finito?
«Certo che no. Gli isolati sono incompleti. Non c’è nessuno dei servizi previsti. Per venti anni quei poveretti sono rimasti senza acqua né luce. È diventato il contrario di come era stato pensato».
Cioè?
«Ne hanno fatto un quartiere abbandonato, monoclasse e monofunzionale. Nelle città, invece, ogni quartiere dovrebbe avere una sua articolazione: un centro, i servizi, il verde pubblico...».
Modello londinese.
«Sì. Londra sembra addirittura una confederazione di villaggi. Alle grandi città bisogna restituire la qualità diffusa».
Mi fa un esempio di qualità diffusa?
«Le basta andare a San Gimignano o in una qualsiasi città europea medievale».
Quand’è che la qualità diffusa è uscita dai progetti urbanistici?
«Direi a partire dagli anni Settanta. L’idea del “disegno urbano” ha lasciato il passo alla prevalenza dimostrativa dei singoli oggetti architettonici. Nello stesso periodo gli architetti hanno cominciato a illustrare il mondo abbandonando ogni distanza critica nei confronti dello stato delle cose e l’idea di progettare delle alternative».
Lei ha da poco progettato l’edificazione di una cittadina vicino a Shanghai.
«Lì c’è una precisa volontà politica».
E cioè?
«Fare argine all’espansione di Shanghai, costruendo delle piccole città. Hanno capito che per evitare l’effetto periferia/sobborgo che gravita sul centro della metropoli, le “new town” devono avere una loro realtà economica e una loro articolazione sociale e di classi. Quello che è successo in Europa è che con la crisi di de-industrializzazione in molte città è saltato il rapporto tra territorio e luogo di lavoro».
La sua ristrutturazione della Bicocca a Milano ha un sapore sovietico.
«Non mi sembra proprio».
Quei palazzoni rossi, squadrati...
«Lì abbiamo rispettato esattamente l’arti-
colazione storica dell’insediamento industriale. C’è un elemento di connessione con la storia del territorio. I palazzi rossi sono sedi universitarie. Il colore è ispirato alle
Red Brick University inglesi di inizio Ottocento».
Sbaglio o lei non è molto eco-orientato? Non fa della sostenibilità ambientale una bandiera.
«Sono attento ai problemi del pianeta. E, ovviamente, progetto seguendo canoni di sostenibilità. Ma “eco” dovrebbe essere il mezzo, non il fine. Mi pare assurdo che se un prodotto architettonico oggi non ha il prefisso “eco” non si venda più».
Ha detto: «L’eco-sostenibilità si è trasformata in ego-sostenibilità degli architetti».
«Il prefisso “eco” non ci consegna granché di nuovo dal punto di vista architettonico. È un marchio. Per vendere. Il verde verticale non mi pare molto diverso dal balcone pieno di piante di mia zia».
La sua famiglia...
«Sono nato dentro la fabbrica tessile fondata dal mio bisnonno. Invece di giocare con le galline, stavo coi falegnami e i fabbri... Da allora l’idea di lavoro collettivo non mi è mai passata».
Ritiene di essere un architetto che valorizza i suoi collaboratori?
«Spero di sì. Nel teatro che ho appena realizzato ad Aix-en-Provence ci sono le pietre del rivestimento autografate da tutte le persone che hanno collaborato. Sulla mia esperienza nella fabbrica di famiglia, comunque, ho scritto anche un romanzo: Recinto di fabbrica».
In Autobiografia del XX secolo, invece, mette in fila tutti gli incontri che ha fatto durante i suoi viaggi: da Fernand Léger a Charles Eames, passando per Gropius, Tadao Ando e Calder. Lei ha un clan di amici?
«Ho tanti amici. Ma pochi tra gli architetti».
A cena col nemico?
«Frank Gehry».
L’autore del “Guggenheim” di Bilbao.
«Ha un talento straordinario. Lo andai a trovare proprio sul cantiere di Bilbao. Dopo avermi illustrato il progetto mi chiese: “È troppo?”. Lui immagina edifici che sembrano essere stati devastati da uno tsunami. È molto poetico».
Qual è l’errore più grande che lei ha fatto?
«Sottovalutare il problema della mafia a Palermo».
Ai tempi della progettazione dello Zen?
«Ricordo le riunioni con il sindaco, don Vito Ciancimino. Faceva delle scene incredibili. Si buttava per terra. Si metteva sotto il tavolo. Era un teatrante nato. Il progetto rimase fermo sette anni perché non si trovava l’accordo tra due fazioni della Dc».
Qual è la scelta che le ha cambiato la vita?
«Decidere di non fare il musicista».
Sa quanto costa un pacco di pasta?
«No. È mia moglie a fare la spesa».
Sa che cos’è Twitter?
«Certo».
Conosce i confini della Libia?
«L’Algeria, il Marocco…».
Che cosa guarda in tv?
«L’ispettore Barnaby su La7. Mi piace moltissimo».
Il film preferito?
«L’ultimo veramente bello che ho visto è stato Miracolo a Le Havre di Aki Kaurismäki».
La canzone preferita?
«Le dico il cantante: Lucio Dalla. Alla Scala aveva il posto accanto al mio».
Il libro?
«Ho appena riletto La marcia di Radetzky di Joseph Roth. Essendo un divoratore di libri, ogni tanto rispolvero un classico per confrontarlo con i romanzi che escono oggi».
Il risultato?
«L’ultimo di Franzen l’ho abbandonato dopo poche pagine. Bravissimo, eh… Ma che me ne frega a me di due famiglie americane e dei minuziosi dettagli della loro vita?».
Che libro farebbe leggere ai suoi studenti?
«Gli scritti del critico Edoardo Persico. Ma guardi che molti studenti leggono poco».
Come fa a saperlo?
«Glielo chiedo. Durante gli esami faccio una piccola indagine: il 15-20% legge solo i testi universitari».
Come è nata l’idea dell’indagine?
«Un giorno mi sono trovato davanti un giovane molto simpatico. L’esame non gli stava andando bene. Ma lo volevo promuovere. Così gli ho chiesto: che cosa stai leggendo? E ho scoperto che non aveva mai letto un romanzo. Da quel momento faccio sempre la domanda sulla lettura».
Ma il giovane simpatico alla fine lo ha promosso?
«No. A quel punto l’ho bocciato».
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