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 2012  marzo 15 Giovedì calendario

Fuga dai centri storici – Serrande abbassate, strade deserte. L’impressione è che da un momento all’altro anche i lampioni si spengano all’improvviso, lasciando i malcapitati passanti smarriti, a vagare per le vie un tempo popolate da boutique e negozi

Fuga dai centri storici – Serrande abbassate, strade deserte. L’impressione è che da un momento all’altro anche i lampioni si spengano all’improvviso, lasciando i malcapitati passanti smarriti, a vagare per le vie un tempo popolate da boutique e negozi. Non siamo in una delle città fantasma che tanto sarebbero piaciute al genio del brivido Edgar Allan Poe, ma neppure nel regno della fantasia. Il modello «città degli spettri» è reale, e potrebbe a breve diventare lo specchio dei nostri centri storici: tra locali sfitti e negozi che falliscono, a guardare gli ultimi dati sull’attività commerciale dentro le mura di capoluoghi e cittadine italiane, non c’è, infatti, molto da stare allegri. Qualche esempio? A Urbino la popolazione del centro storico è scesa dai 1.700 abitanti circa del ’91 fin sotto al migliaio; Venezia, che nei primi anni ’90 contava oltre 78 mila abitanti, oggi ne ha appena 59 mila. Nel 1951 a Roma, dentro le mura aureliane, risiedevano 370 mila persone; oggi, nello stesso perimetro, gli abitanti non arrivano a 100 mila. Che cosa è accaduto? Complici il caro affitti degli ultimi anni e i prezzi proibitivi praticati da botteghe e negozi di generi alimentari, gli affezionati del centro storico hanno fatto le valigie, seguiti a ruota da negozianti e piccoli imprenditori. Stanchi di zone a traffico limitato, file ai parcheggi e lunghi tratti da percorrere a piedi per raggiungere l’uscio di casa o il negozio di fiducia, hanno ceduto alla tentazione di una vita apparentemente più facile. Colpa della crisi, dunque, ma non solo. Alla base della morte dei centri storici italiani, infatti, sta un radicale cambio di mentalità dei cittadini stessi. Affascinato dal mito americano della villetta a schiera, con tanto di giardinetto privato, ampio parcheggio e centro commerciale dietro l’angolo, il popolo dei centri città ha barattato le crepe sul soffitto dell’appartamento (spesso piccolo) dal sapore un po’ retrò con l’odore di vernice fresca, il prato verde plastica e una casa più spaziosa, ma che sembra fatta con lo stampino. Ha formattato la tradizione, sacrificandola per uno status symbol. Nel frattempo, a questa migrazione è corrisposto un calo dei prezzi intra moenia (cioè nei centri città) che ha attirato un gran numero di cittadini immigrati. Una sorta di ghettizzazione al contrario, insomma, come spiega Pier Luigi Paolillo, professore ordinario di Urbanistica al Politecnico di Milano, che punta il dito contro l’impostazione conservazionista mantenuta, fino a vent’anni fa, dalle amministrazioni locali. «Troppi vincoli all’edilizia, conditi dalla scarsa capacità al riuso da parte delle imprese, hanno accelerato la morte dei centri storici. Ma ora non possiamo più insistere sul modello della “città diffusa” (area metropolitana che cresce in modo rapido e disordinato, ndr); dobbiamo tornare a riempire i nuclei urbani». Primo passo verso la riqualificazione del centro città, secondo Paolillo, è liberarsi dei legami con il passato, adeguando norme e scelte culturali ai nuovi modelli di vita: «Bisogna garantire un modello abitativo ampio, permettere interventi sostitutivi sul patrimonio architettonico-artistico. Le soffitte si devono poter allargare: basta trattare i travi storici come simulacri! Se non si possono ampliare, a che servono due sole stanze per una famiglia moderna?». C’era una volta un sogno chiamato città ideale. Qualcuno lo teorizzò soltanto, qualcun altro – come l’Anonimo fiorentino, autore della tavola di fine ’400 conservata alla Galleria nazionale delle Marche a Urbino – lo dipinse pure. Una piazza rotonda e tutt’intorno edifici pubblici e privati mai più alti di tre piani. Un gioco di luci e pastelli, tra geometrie, marmi e rimandi all’architettura romana, ma soprattutto un concetto monocentrico che ora vale la pena di riprendere per il bene dei nostri nuclei storici. Accantonata da tempo questa organizzazione classica a favore di una struttura urbanistica «a macchia di leopardo», «si tratta oggi – scrive Cesare Macchi Cassia nel libro Centri storici e nuove centralità urbane (Alinea) – di leggere il rapporto tra materiali diversi, fra diverse realtà insediative e funzionali che nella città vengono a integrarsi in modo inedito (…). L’esistenza del centro contribuisce alla visione classica della città intesa come pregnante rappresentazione della società che la abita e la ridisegna». Il nucleo urbano, quindi, come punto di riferimento e di identificazione della società, va riadattato alle nuove esigenze dei suoi fruitori, tramite un progetto che chiama in causa non solo urbanisti e architetti, ma anche politici, commercianti e, non ultimi, gli abitanti. «Spetta al progetto dare senso al paesaggio e al patrimonio diffuso – continua Macchi Cassia – segnalare le diversità dalle identità locali». Ricostituire un unico centro città non significa tuttavia dimenticare la periferia urbana, bensì ripartire proprio da questa per favorire il rientro della popolazione tra le mura storiche. «Il centro è definito dalla presenza di una periferia – scrive ancora l’architetto, che fa parte del Consiglio direttivo dell’Associazione nazionale per i centri storico-artistici –. A Milano, ad esempio, il centro ha cessato di rappresentare gli abitanti e gli operatori, mentre sono le continue prese di significato da parte della periferia a testimoniare un nuovo salto qualitativo nella storia della città. La periferia è la verifica della vitalità della città». Il modello «spalmato» Parafrasando un concetto di Pier Paolo Pasolini, potremmo affermare che oggi il «vampiro del consumismo» ha toccato anche i modi dell’abitare e del vivere, ha corrotto l’anima delle classi subalterne in una forsennata ricerca di benessere e di un luogo abitato da omologhi sociali. Ora più che mai l’eterogeneità fa paura. Ne è convinto Giovanni Pieretti, direttore del dipartimento di Sociologia Achille Ardigò dell’Università di Bologna, per il quale l’equazione sprawl (in italiano, «città diffusa», ndr) uguale isolamento sociale è un dato di fatto. «I centri storici? Ormai sono zone morte», assicura il docente. Per toccarlo con mano non serve andare lontano. «A Bologna, dove abito, si contano oggi 22 mila appartamenti vuoti tra centro e prima periferia. Nel giro di una quarantina di anni oltre 370 mila persone hanno lasciato il nucleo urbano per mettere su casa nell’area agricola a nord della città». Convinti di risparmiare sull’affitto o sul mutuo, di migliorare il proprio tenore di vita e, infine, di dare una mano all’ambiente (alzi la mano chi ha ben chiaro il concetto di «casa ecostenibile»), questi «migranti» non sanno invece che il modello «villettopoli», così come lo ha definito l’urbanista Pier Luigi Cervellati, richiede ben più risorse e sacrifici. «Almeno due automobili, litri e litri di carburante e una vita all’insegna dell’individualismo. Tra navigatori satellitari, computer e televisioni, oggi la tendenza è di isolarsi dalla società», continua Pieretti. La fuga dalla città (e a volte dalla realtà), rappresenta dunque un modo per emanciparsi dalla propria condizione e prendere le distanze da quel melting pot, quella mescolanza di culture e classi sociali, che si è creata in molti centri urbani piccoli o grandi. Ma, in fondo, come insegna il filosofo greco Aristotele (IV secolo a.C.) nella sua Politica, «l’uomo è un animale sociale» e per natura ha bisogno di punti di riferimento che la «città spalmata» non può offrirgli. «Per questo li va a cercare nei luoghi d’origine, dove in genere ritorna a compiere i riti importanti della vita – aggiunge Giovanni Pieretti –. Battesimo, matrimonio e sepoltura di un familiare in primis». Ecco dunque una breccia che renderebbe l’inattaccabile modello urbano «spalmato» non così tanto inattaccabile. Negli Stati Uniti d’altra parte, dove il modello sprawl è arrivato ben prima che da noi, la «città diffusa» è già in crisi. E in Italia che cosa accadrà? Per Pieretti è questione di anni – dieci, o anche meno – prima che outlet e centri commerciali perdano mordente e che i nuclei storici comincino a ripopolarsi. Merito, quindi, della crisi che «costringerà a tornare coi piedi per terra e a riscoprire i valori appannati dalla cultura consumistica. Sarà un ritorno all’essenzialità e al concetto cristiano di redistribuzione – conclude il sociologo bolognese –, un ritorno al fare comunità, nella convinzione che, armati di orgoglio e risorse sociali, ce la possiamo fare anche con molto meno».