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 2012  marzo 07 Mercoledì calendario

COSA LEGGONO I NUOVI ITALIANI


“Decreto flussi may not be published this year”.
Il titolo sul foglio di giornale sovrasta un’alta pila di vecchi numeri che occupa la scrivania molto disordinata (come lo sono tutte) della redazione molto bella (come lo sono poche) di Stranieri in Italia. Siamo davanti a una vetrata che dà al tramonto guardando alle vaste propaggini di Roma, in una stanza affollata di giornalisti che dire multiculturali è riduttivo. Qui si scrivono i dieci mensili, due quindicinali e due settimanali che formano l’offerta di stampa etnica dell’“editore dei nuovi cittadini”: oltre mezzo milione di lettori al mese per ventidue nazionalità, con un potenziale bacino di utenza di quasi cinque milioni di persone, calcolando solo gli immigrati regolari.



Distribuiti in prevalenza come free press nelle sedi delle comunità, nelle chiese, nei negozi etnici e soprattutto nelle agenzie di money transfer Western Union/Angelo Costa (ma anche per abbonamento e in omaggio nelle rappresentanze diplomatiche), i cartacei di Stranieri in Italia sono rigorosamente in lingua. Arabo per Al Maghrebiya (28mila copie), spagnolo per Expreso latino (27mila copie), polacco per Nasz Swiat (16mila copie), portoghese per Agora Noticias (13mila lettori brasiliani) e così via fino al rumeno di Ziarul Romanesc che di migliaia ne conta 46 e fa concorrenza in casa alla Gazeta Romaneâsca, l’eccezione perché in vendita nelle edicole.



“Stampiamo a Brescia”, spiega Anca Gliz, responsabile della distribuzione che dieci anni fa in Romania lavorava per una ditta di elettro- domestici. “Anche lì ero nella distribuzione, ma il prodotto era decisamente diverso”, e un sorriso tradisce l’orgoglio di partecipare a un progetto così complesso.
L’orgoglio ha un suo fondamento ben saldo: nello stesso momento in cui i colleghi di blasonatissime testate italiane tremano alla vista dei tagli di governo ai fondi per l’editoria, Stranieri in Italia non prende un solo euro di finanziamento pubblico.



“Ci sosteniamo con la raccolta pubblicitaria, siamo media partner di numerose iniziative delle comunità, come eventi culturali o sociali, e non abbiamo neanche una onlus o qualche altro escamotage per coprirci le spalle”, sottolinea Elvio Pasca, il caporedattore che orchestra questo complesso di voci e scrive i testi delle notizie di servizio che costituiscono buona parte dell’offerta informativa destinata ai nuovi cittadini.



“In Italia quasi ogni settimana cambia qualcosa nelle norme che regolano l’immigrazione. Tanti di noi diventano clandestini perché hanno perso un banale passaggio burocratico, e il nostro compito è aiutarli”. Ha l’aria seria e il sorriso largo Stephen Ogongo, responsabile di Africa News, il mensile per l’Africa anglofona. Il suo lavoro comprende anche mantenere la rete di contatti con le comunità, vagliare le notizie che i lettori segnalano, raccontare storie di integrazione e di talenti nascosti: “Succede spesso di ricevere una tale quantità di notizie che non riusciamo a pubblicarle tutte per mancanza di spazio”. Milton Kwami, il suo omologo di Africa Nouvelles (27mila copie per trenta comunità diverse), spiega la filosofia del giornale: “Preferiamo una notizia dalle associazioni dei nostri lettori a uno scoop internazionale. Il nostro lavoro serve a colmare un vuoto, e la nostra carta vincente è che siamo tutti redattori stranieri. Anzi, io stesso sono sia giornalista sia lettore”.



Il punto di vista e la lingua, quindi, come differenze e unicità rispetto ad altra stampa di settore. Qualcuno ricorda il defunto inserto di Repubblica, Metropoli. Ma non basterebbe una squadra di traduttori a copiare il progetto, perché la lingua spesso non è semplicemente quella del paese di origine. “Io scrivo in tagalog, la lingua parlata nelle Filippine, ma anche in taglish, misto inglese e filippino”, racconta Pia Gonzales, la junior della redazione che ha cominciato sul sito dell’editore un anno fa e interpreta le istanze dei filippini di terza generazione.



Ejaz Ahmad aveva molta esperienza, giornalista già in patria: da due lustri è a Stranieri in Italia, dove cura Azad, una pubblicazione in urdu. “È una lingua che sta scomparendo, soprattutto all’estero dove i bambini frequentano le scuole religiose in cui si studia il Corano, che è in arabo. I pakistani in Italia avevano bisogno di un giornale scritto in urdu. La maggior parte di loro non parla italiano: rischiano di essere tagliati fuori dall’attualità, anche se spesso questa li riguarda direttamente. Un giornale li può aiutare a capire la cultura di questo paese, ma anche a riscoprire la loro”.



“Azad” significa guerra e quella di Ahmad è una battaglia culturale condotta con la necessaria diplomazia. L’ambasciata pakistana non sempre gradisce le sue inchieste sui delitti d’onore e i matrimoni combinati; il suo approccio laico alla cultura nazionale può far storcere il naso a qualcuno, ma non ne sembra spaventato. I suoi lettori vivono prevalentemente nelle città del nord (Brescia, Bolzano, Bologna, Carpi); il suo lavoro è raccontare storie di integrazione e di difficoltà.



Tutta la redazione è impegnata anche nelle guide sulle normative vigenti, i vademecum, nelle collaborazioni con il Sole 24 Ore, con Formez (un programma di formazione e assistenza alle pubbliche amministrazioni), con i comuni italiani tra cui Roma e Milano, con l’Inps, l’Inail, con altri enti pubblici e attraverso un apposito ufficio legale che offre consulenza online. Nel 2007 l’editore ha aperto una società a Londra, My Own Media, iniziando la pubblicazione di cinque mensili in lingua, a cui si sono poi aggiunti tre settimanali.
Ma questo non travalica l’importanza dei giornali su carta, che dalle sedi dei money transfer e nei locali delle associazioni passa di mano in mano tra i nuovi cittadini d’Italia. “Come un tam tam”, secondo l’ivoriano Milton Kwami.



Sfogliando le pagine che seguono quella intitolata al “decreto flussi”, c’è il fotoracconto di una festa religiosa celebrata in Italia e all’estero (nessun continente escluso) dalla comunità punjabi. Un uomo con il turbante tiene per mano una bambina di otto anni, vicino a una tavola imbandita. Gli scatti sono casalinghi — è il citizen journalism, bellezza — ma la foto non è banale.
L’uomo osserva i valori di una cultura che abita le nostre stesse strade, nell’assoluta ignoranza del vicino di casa italiano. Eppure contribuisce insieme ad altri milioni di stranieri all’11,1% di pil e versa nelle casse pubbliche 11 miliardi di euro l’anno tra contributi previdenziali e tasse, che concorreranno a pagare cura e pensione del vicino di casa italiano per il quale sarà certo un bene che l’uomo con il turbante conosca leggi e Costituzione italiana.



La bambina e i suoi fratelli minori, se l’appello di pochi mesi fa del presidente Napolitano verrà ascoltato, tra una decina d’anni o prima saranno nostri concittadini a tutti gli effetti. È così marginale il racconto delle comunità straniere, rispetto alle analisi internazionali di crisi geopolitiche che affollano le pagine di altri quotidiani? Forse dipende solo dal punto di vista.