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 2012  marzo 13 Martedì calendario

La lady che creò il mito della moda - Come le sarebbe piaciuta una mostra a Venezia, con tutti quegli influssi levantini e bizantini e barocchi, e quel senso di vecchia Europa aristocratica decaduta

La lady che creò il mito della moda - Come le sarebbe piaciuta una mostra a Venezia, con tutti quegli influssi levantini e bizantini e barocchi, e quel senso di vecchia Europa aristocratica decaduta. La felicità per Diana Vreeland era bere un caffè in piazza San Marco con Andy Warhol. E quando le chiesero che cosa pensasse dei jeans disse che erano l’oggetto meglio disegnato al mondo, però subito dopo la gondola. Fino al 25 giugno proprio a Palazzo Fortuny si celebra il culto della dea-ex-machina della moda dagli Anni Trenta agli Ottanta, prima come direttore di Harper’s Bazaar e Vogue America, poi come consulente speciale dell’istituto per il costume del Metropolitan Museum di New York. In mostra abiti fantasmagorici e spesso mai esibiti in Italia, fonte della sua ispirazione e materiale delle seminali mostre per il Met: certi Saint-Laurent entrati per sempre nella psiche delle donne, che lo sappiano o no, tipo i Mondrian dress e o quelli ispirati ai Ballets Russes; i Balenciaga più massimalisti, come un divino manufatto di piume verdi appartenuto a Mona Bismarck; i Worth fine Ottocento; preziosi pezzi settecenteschi prestati dal Museo Mocenigo; e naturalmente tutti gli Schiaparelli e gli Chanel del caso. Ma anche la cappa rossa di Maria Callas, di cui Vreeland era fan assoluta, perché anche i miti coltivano i propri miti, o certe uniformi absburgiche per cui andava folle; le sue divise da lavoro, cioè due monacali Givenchy di maglia beige; e anche un cavallo finto, ma a grandezza naturale, addobbato di foulard di Missoni ed Emilio Pucci, citazione di quello tappezzato Balenciaga che Diana espose a New York. Le due professoresse universitarie che hanno curato la mostra, Maria Luisa Frisa della Iuav di Venezia e Judith Clark della London School of Fashion, spiegano che l’intento di «Diana Vreeland After Diana Vreeland», in un continuo rimando di associazioni, è soprattutto quello di «ragionare sulla figura del fashion curator e sul modo di museificare i vestiti, in un esercizio spesso vertiginoso fra i tempi lenti della storia e quelli istantanei della foggia del momento». Sul tema si è tenuto un convegno internazionale con la partecipazione di Harold Koda del Met, di Akiko Fukai del Kyoto Costume Institute e di decine di altri esperti. Ma certo vien voglia, prima di tutto, di raccontare questo fascinoso animale di bruttezza mitologica e irripetibile allure (d’altra parte la parola l’aveva inventata lei), dalle unghie scarlatte e dai braccialetti di Kenneth Jay Lane massicci come armature, madre di tutte le diavolesse vestite Prada, perfettamente cosmopolita divisa com’era fra Parigi, Londra e New York, discendente di George Washington e sposata a un banchiere. Il modo più spiccio di raccontarla resta quello dell’elenco degli aneddoti, una miniera di cui non si vede il fondo. La volta che pretendeva a gran voce un verde biliardo, le portarono tutti i verdi possibili e lei sempre no, come la regina cattiva di Alice. Alla fine le sacrificarono un biliardo vero per sottoporle il panno, e lei rifiutò anche quello, perché chiedeva «l’IDEA del verde biliardo». Sempre a proposito di colori, la secca imposizione che impartì all’arredatore Billy Baldwin per l’appartamento di Park Avenue: voleva «un giardino, sì, però all’inferno», cioè flamboyant e tutto declinato nei toni del rosso. Fu anche la prima a inventarsi modelle non convenzionali e rubate allo showbiz o alla buona società, come Benedetta Barzini, Edie Sedgwick, Françoise Hardy, Mia Farrow, Catherine Spaak. Aveva un debole per le nasone e Barbra Streisand forse le deve la carriera. La tassonomia dei suoi vezzi creativi è raccolta in una rubrica per Harper’s Bazaar intitolata «Why don’t you?»: perché non vesti tua figlia da infanta per una festa in maschera? Perché non usi una conchiglia gigante invece del secchio per ghiacciare lo champagne? Perché non indossi guanti viola di lana? Perché non ti leghi ai polsi nastri di tulle nero? E’ morta a 86 anni, nel 1989. I giornali di moda continuano a rimasticare le sue idee, nel migliore dei casi il suo metodo.