Luigi Ferrarella, Corriere della Sera 14/03/2012, 14 marzo 2012
IL PG, DELL’UTRI E GLI ALTRI PROCESSI: LE ACCUSE SIANO PIU’ PRECISE
La disfida tra Orazi e Curiazi sulla requisitoria del pg Francesco Iacoviello, al cui esito la Cassazione ha annullato la condanna di secondo grado a 7 anni e ordinato un nuovo Appello per Marcello Dell’Utri, da giorni ruota sulla configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa e sulla mafiosità o meno del parlamentare braccio destro di Berlusconi e cofondatore di Forza Italia. Ma così passa in secondo piano la questione di fondo posta dal pg e rilevante non solo per questo reato o questo processo: la correlazione tra accusa e sentenza, il rapporto tra imputazione non ben definita e relativo vizio di motivazione della sentenza.
Sulla scorta della giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo, da tempo Iacoviello insiste sull’importanza che l’imputazione debba essere dettagliata, cioè che una stringente formulazione linguistica dia conto all’imputato della chiara e precisa condotta criminosa dalla quale deve difendersi. Non basta che l’imputazione sia «diffusa nelle pagine del processo», sparsa tra le prove che pure esistono «in fatto» nel dibattimento, ancorata a progressivi «slittamenti semantici» ed «estratta da una mezza frase o da una metafora». "Canale", "tramite", persona "a disposizione" o che "si adopera" o sulla quale "si fa affidamento", sono tutte espressioni che ben possono integrare condotte criminose punibili, a patto che prima si descriva bene nell’imputazione, e quindi sia poi argomentabile nella motivazione, cosa in concreto l’imputato abbia fatto, quando e come.
Questo principio di tipicità penale non è questione di lana caprina. Se mai, a parte la curiosità statistica che in Cassazione questi rigorosi standard probatori trovino smalto più nei processi "eccellenti" (dove Iacoviello era affiancato dal procuratore generale aggiunto Ciani) che di fronte agli imputati ordinari, non andrebbe sottovalutato che a volte la multiforme ambiguità delle collusioni mafiose rende arduo dettagliare (in base alla sentenza Mannino 2005 delle Sezioni unite) il «concreto, effettivo e rilevante» contributo causale, nonché il «dolo diretto» (e non solo «il dolo eventuale») di favorire i clan.
L’esperienza, ad esempio in uno degli episodi contestati a Dell’Utri come concorso esterno, dimostra inoltre che nemmeno imputazioni chirurgiche azzerano il rischio di ancor più chirurgiche titubanze nei ping-pong tra Appello e Cassazione: l’aver Dell’Utri mobilitato due mafiosi per convincere un imprenditore trapanese a rispettare l’impegno di restituire in nero parte d’una sponsorizzazione di basket, infatti, è vicenda che 6 sentenze — alcune di condanna per tentata estorsione, altre per il reato di minacce, e una a concludere invece che il fatto non sussiste — hanno fatto sfociare nella «non raggiunta prova» che la visita dei mafiosi al manager fosse «idonea a incutergli timore».
Non c’è peraltro bisogno di riascoltare la chiusa di Iacoviello («L’annullamento con rinvio per vizio di motivazione non vuol dire che la decisione sia sbagliata e l’imputato innocente, vuol dire che la motivazione è viziata») per stupirsi di taluni festeggiamenti: tanto più incongrui quanto più i fatti, quand’anche non inquadrabili penalmente, fanno a pugni con la dimensione di un parlamentare.
Si fatica però a comprendere pure le reazioni di autorevoli magistrati quando, freschi dall’aver opposto alle critiche sulle misure cautelari per i No Tav le conferme nei successivi gradi di giudizio, di essi disconoscono il valore appena sono a loro sfavorevoli. E stona sentire vagheggiare punizioni disciplinari del pg di Cassazione, reo di una sgradita interpretazione di questioni di diritto: proprio ciò che quegli stessi pm hanno subìto sulla loro pelle negli anni in cui sgraditi alla cattiva politica erano loro.
Luigi Ferrarella