Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  marzo 14 Mercoledì calendario

GLI IMPRENDITORI DOVE SONO?

Se con Google cercate la parola «Ducati» otterrete circa 123 milioni di risultati. Per capirci: «Ferrari», uno dei marchi italiani più famosi nel mondo, è a quota 548 milioni. Questo già fa capire quanto sia sbagliato considerare il passaggio di mano della casa di Borgo Panigale come un semplice affare fra privati.
La Ducati ha una storia travagliata e magnifica. Nata nel 1926, fa apparecchi radio. Il suo fondatore Antonio Cavalieri Ducati muore l’anno seguente e l’azienda va ai figli. Poi la guerra, la fabbrica distrutta e la ricostruzione. Nel 1946 inizia a produrre piccole moto, ma di lì a poco finisce nel calderone delle Partecipazioni statali. Resta pubblica, passando dall’Efim alla Finmeccanica, per 35 lunghi anni, senza infamia né lode. Unica eccezione, i colpi di genio dell’ingegnere Fabio Taglioni che a fine anni Sessanta progetta un motore rivoluzionario, del tutto simile a quello ancora oggi montato sulle moto bolognesi.
Dopo il parcheggio nella pancia dello Stato, la Ducati è messa male e rischia una fine ingloriosa. Ma nel 1985 i fratelli Castiglioni, quelli della Cagiva, la comprano. E si inizia a risalire la china. La chiave è nelle corse: nel 1988 inizia un nuovo campionato per moto estreme di serie e il bicilindrico progettato da Taglioni fa mangiare la polvere ai giapponesi. Delle ventiquattro edizioni della Superbike la Ducati ne vince quattordici. Arriva nel 2007 anche il titolo nella Motogp, la Formula Uno delle due ruote, a 33 anni dall’ultimo alloro italiano conquistato dalla Mv Agusta. Impresa fantascientifica, per una fabbrica che vende 40 mila moto l’anno, contro i 3 milioni della Honda. Artefice è Filippo Preziosi, un ingegnere di quarant’anni costretto sulla sedia a rotelle da un grave incidente motociclistico. Il quale riesce pure in una seconda impresa, fino ad allora impensabile: ingaggiare Valentino Rossi.
I successi commerciali vanno di pari passo con quelli sportivi e la Ducati è ormai una icona planetaria. La «Ferrari delle moto», tanto assomiglia alla Rossa. Il rombo del bicilindrico di Borgo Panigale è brevettato in America, al pari di quello di un altro mito dell’industria motociclistica mondiale, la Harley Davidson. Nel frattempo, la società passa di mano altre due volte: prima va al fondo americano Tpg, quindi ad Andrea Bonomi. E ora tocca alla tedesca Audi. Bonomi ha fatto i suoi conti e li ha fatti bene. Incasserà il triplo di quanto speso solo sei anni fa. Bravissimo. Bravissimi pure quelli dell’Audi: vedono lontano.
Meno bravi, invece, i tanti imprenditori che si lamentano perché l’alta tecnologia emigra, perché le aziende italiane soffrono di nanismo, perché perdiamo quote nel commercio mondiale. Salvo poi essere i primi ad abbandonare l’industria per rifugiarsi nelle comode rendite di posizione dei servizi pubblici, oppure a trasferire gli stabilimenti in Serbia o Romania. E addirittura girarsi dall’altra parte quando gli si offre l’occasione per non lamentarsi più.
Lasciano basiti l’indifferenza e il silenzio che hanno accolto, fra i nostri industriali, la notizia della cessione. Impossibile credere che in Italia non ci sia nessuno disponibile a scommettere sulla Ducati, e che ci dovremo rassegnare a vedere Valentino Rossi sfrecciare su una moto «tedesca». Ma forse è inevitabile, in un Paese nel quale anche molti imprenditori hanno lo sguardo corto.
Sergio Rizzo