Alberto Ronchetti, Il Sole 24 Ore 12/3/2012, 12 marzo 2012
IL PETROLIO RISCHIA DI INCENDIARSI
Il capitolo Grecia, almeno per ora, è stato chiuso dall’adesione di massa allo swap dei titoli obbligazionari ellenici e le Borse hanno festeggiato. Anche con le prese di beneficio, come è ovvio che sia. Certamente nei prossimi mesi si apriranno altre pagine del "Grande libro della crisi europea", a partire da Portogallo, Irlanda e Spagna e, magari, bisognerà pure aggiungere qualche pagina al capitolo sulla Grecia.
Ma questo lo vedremo in seguito. Al momento gli investitori hanno altri problemi a cui pensare, a partire dalle tensioni geopolitiche nel Medioriente e, quindi, dalla questione petrolifera. Temi che, probabilmente, condizioneranno le stime di crescita economica (e dei listini) nei prossimi mesi.
Già, perché adagio adagio – però inesorabilmente – da fine 2011 a oggi il prezzo del greggio Brent è salito da 100 a 125 dollari al barile, mostrando una tendenza rialzista che nelle ultime sedute ha incominciato a preoccupare davvero i mercati. La correzione dei listini nell’ultima settimana è certamente figlia anche di questa preoccupazione, che si è aggiunta alla questione greca e alla frenata economica prevista in Cina.
Il problema è capire se la tendenza rialzista del petrolio continuerà. In questo caso, la fragile ripresa economica nel mondo sviluppato potrebbe rapidamente deragliare e l’inflazione potrebbe tornare a mordere i mercati emergenti, spiega un recente studio di Hsbc Global Research, esattamente come un anno fa. Il rally petrolifero attuale è stato spinto soprattutto dalle crescenti tensioni attorno all’Iran (che prima ha minacciato di bloccare le esportazioni e il canale di Suez, poi ha visto l’affermazione dei conservatori alle elezioni dell’altra settimana e nel frattempo prosegue nel suo programma nucleare). Peraltro anche la "forte" Russia, rafforzata dalla discussa rielezione del presidente Putin, è oggettivamente un elemento di sostegno al petrolio, perché Mosca – grande esportatrice di oro nero – ha tutto l’interesse a mantenere alte le quotazioni del greggio e a incamerare così valuta estera pregiata.
Ma fin dove potrà arrivare il greggio? Gli economisti, nel caso di un peggioramento della crisi iraniana, vedono a portata di mano quota 150 dollari. Se poi la parola dovesse drammaticamente passare alle armi, per esempio nel caso di un bombardamento preventivo degli israeliani sulle postazioni atomiche iraniane, i 200 dollari e oltre al barile non sarebbero fantascienza.
Per adesso però affidiamoci all’analisi tecnica, che ci dice come il light crude – attualmente a 107 dollari al barile (il brent è a 125 dollari circa) – ha, «con il recupero dell’importante fascia di resistenza individuabile a ridosso dell’area 103-104, aperto la strada a ulteriori potenziali rivalutazioni. I corsi – spiegano all’ufficio studi di Banca Sella – sembrano aver via libera fin verso i precedenti massimi di periodo, a ridosso di 113,5-115, dopo il test dell’obiettivo intermedio indicato a quota 110. Solo ritorni sotto 104-103 favorirebbero nuove discese verso 98,5 prima e 95 in seguito. Un nuovo e più marcato segnale di debolezza si avrebbe solo sotto 95, dove si aprirebbero le porte verso 92,50 in prima battuta e 90 successivamente».
Intanto però il prezzo del greggio è sotto tensione. E allora, in questo scenario potenzialmente difficile, come si deve comportare l’investitore? «Dal punto di vista delle scelte di allocazione – risponde la ricerca di Hsbc – chi è più ansioso dovrebbe sovrappesare i titoli del settore energetico, ma in linea più generale per il mercato azionario è importante capire se l’incremento dei prezzi è dovuto a uno shock sull’offerta o a una tensione della domanda».
In quest’ultimo caso, infatti, il rialzo dei valori petroliferi sarebbe effetto di una ripresa economica e quindi, alla fine, risulterebbe anche positiva per i listini nel loro insieme. Purtroppo, però, oggi il rialzo è determinato dai timori sul rischio di un’improvvisa e radicale interruzione delle forniture ai Paesi sviluppati per un aggravarsi delle tensioni mediorientali.
Allora può essere interessante, dal punto di vista dell’investitore, comprare attività finanziarie denominate in monete che potrebbero uscire rafforzate da un incremento del prezzo del greggio. Per esempio, la corona norvegese, piuttosto che il real brasiliano, il rublo russo o il ringgit malesiano. Secondo gli analisti di Hsbc, pure il dollaro australiano, quello neozelandese e il rand sudafricano potrebbero apprezzarsi anche nell’ipotesi di un forte incremento del greggio, mentre sarebbe opportuno vendere, fra le monete emergenti, la rupia indiana, il peso filippino e il peso messicano.