Paolo Mauri, la Repubblica 10/3/2012, 10 marzo 2012
Quei versi osceni del Belli sul piacere quotidiano – Quando Giuseppe Gioachino Belli scrisse, a proposito dei suoi sonetti in romanesco, che non era necessario cercarvi un capo e una coda, poiché ogni pagina era un possibile inizio e ogni pagina una possibile fine, diceva una gran cosa circa la struttura, modernissima, della sua opera e per di più la sottraeva al Tempo, perché le cose che non hanno principio e fine sono di fatto votate ad alimentare se stesse e quando funzionano davvero si candidano all´eternità
Quei versi osceni del Belli sul piacere quotidiano – Quando Giuseppe Gioachino Belli scrisse, a proposito dei suoi sonetti in romanesco, che non era necessario cercarvi un capo e una coda, poiché ogni pagina era un possibile inizio e ogni pagina una possibile fine, diceva una gran cosa circa la struttura, modernissima, della sua opera e per di più la sottraeva al Tempo, perché le cose che non hanno principio e fine sono di fatto votate ad alimentare se stesse e quando funzionano davvero si candidano all´eternità. La plebe di Roma appariva a Belli come una grandiosa macchina parlante che faceva tutt´uno con la città, le sue piazze, i suoi monumenti e naturalmente il Papa e i suoi Principi - cardinali a cominciare dal cardinal Vicario, preposto alla tutela della morale pubblica e dunque per il popolo, che tutto rileggeva attraverso il sesso e le sue metafore, inevitabilmente "Ficario". Dunque, poniamo, il Belli passa per strada e orecchia lo sfogo contro una pettegola chiacchierona: «Nun è ita a ddì in pubbrica funtana / C´a mmè nnun me s´addrizza ppiù l´uscello?». La plebe parla così, inutile farci troppi giri attorno. E così parlava anche nella Roma ufficialmente pudica governata dai papi: in realtà un inestricabile e spesso contraddittorio groviglio di vizio e virtù dove capitava che le puttane per preservarsi dalle temutissime malattie del mestiere accendessero «ogni sabbìto un lumino / Avanti a la Madon-der-bon-conzijjo» e che, vantando le cose create, («Ner Monno ha ffatto Iddio ‘ggni cosa degna») si esclamasse: «Bona la castità, mmejjo la freggna». È stato Antonio Baldini il primo a pubblicare nel 1945 un´antologia del Belli (Er Commedione) senza i puntini al posto delle parolacce. Il più antico editore del Belli, il garibaldino Luigi Morandi, poi precettore di Vittorio Emanuele III, non solo aveva messo i puntini, ma aveva relegato le poesie più sboccate in un volume a parte, il sesto e ultimo della sua edizione, che si vendeva anche da solo e costava più caro di tutti gli altri. Baldini, o per meglio dire Belli, trovò un recensore d´eccezione in Carlo Emilio Gadda (il testo si può leggere ne I viaggi la morte): «Lodo il Baldini per averci serbato, dei profferti sonetti, il testo integro, senza vuoti o puntolini o, peggio, addomesticature denicotinate ad usum puellarum». Dunque, concludeva Gadda, «le parolacce sono sacre (filologicamente) non meno di qualunque altra parola o virgola o accento del testo». Pietro Gibellini, già autore, nel 1974, di una celebre antologia tematica La Bibbia del Belli (Adelphi) ha deciso ora di riproporre i versi osceni, incrociandoli però con quelli in cui si parla della morte (Sonetti erotici e meditativi, Adelphi). Un modo per far risaltare la lezione del poeta in tutta la sua prepotenza espressiva distesa lungo un arco che abbraccia la storia e le voglie degli uomini, il loro destino universale, ma anche la folgorazione dell´istante, le voci spesso isteriche del parlar quotidiano, di cui moltissimi sonetti dànno felicemente conto. «Doppo c´Adamo cominciò cco Eva / Tutte le donne se so fatte fotte», ragiona con piglio biblico e antifemminista un tale, arcisicuro che con qualche regalino si può vincere ogni resistenza. Ma l´eccitazione può produrre immagini sfrenatamente erotiche: «È un gran gusto er fregà! Ma ppe ggodello / più a cciccio, ce voria che ddiventassi / Giartruda tutta sorca, io tutt´uscello». Immagine non inconsueta, visto che della puttana Santaccia di piazza Montanara si dice «che diventava fica da ogni parte». Ma se Santaccia era una sozzissima (parola del Belli) meretrice, i casini erano frequentati persino dai cardinali in temporaneo incognito, pronti a far valere la loro autorità in caso di necessità, come nel celebre bordello scoperto dove monsignore, all´arrivo delle guardie, si levò il (copricapo) nero «e ce se mise er rosso». Le variazioni sul sesso, come racconta Gibellini nella sua ampia e ricca introduzione, sono moltissime e aggiungo qui che l´editore Aragno manda in libreria in questi giorni, sempre dello stesso Gibellini, un Belli senza maschere, documento di una "lunga fedeltà" dello studioso al poeta romano. E ancora a Gibellini rimando per approfondire il nesso "Amore e Morte" così radicato nella lunga storia del Romanticismo e da Belli declinato in modo spessissimo originale, comunque con prevalenza della carne sul sentimento. Una tarda quartina suggella le molte meditazioni sulla morte: «La morte sta anniscosta in ne l´orloggi / pe ffermavve le sfere immezzo all´ora; / e ggnisuno po´ ddì: domani ancora / sentirò bbatte er mezzogiorno d´oggi». Ma tanti anni prima, imitando un sonetto di Marino, Belli aveva in qualche modo steso un dolente manifesto e l´aveva intitolato La vita dell´Omo, che dopo i travagli infantili («poi comincia er tormento de la scola») affronta la vita adulta: «Poi vviè ll´arte, er diggiuno, la fatica, / La piggione, le carcere, er governo, / Lo spedale, li debbiti, la fica // Er Zol d´istate, la neve d´inverno…/ E pper urtimo, Iddio sce bbenedica, / Viè la Morte, e ffinisce co´ l´inferno». Nella gola della Morte finiscono tutti, ragiona il caffettiere filosofo in un sonetto notissimo, paragonando gli uomini ai chicchi di caffè che stanno per essere macinati; ma anche sulla morte si può scherzare, come accade nel sonetto Er cimiterio de la Morte dove guardando gli scheletri il popolano si accorge «D´una gran cosa, e sta gran cosa è cquesta / Che ll´omo vivo come ll´omo morto / Ha una testa de morto in de la testa». Anche Belli ha una sua vena malinconica: «Er tempo, fijja, è peggio d´una lima / Rosica sordo sordo e tt´assottijja, / Che ggnisun giorno sei quella de prima». Il poeta si decise a scrivere in romanesco, come si sa, dopo aver letto, e in qualche caso perfino imitato, le poesie di Carlo Porta in dialetto milanese. Scrisse di nascosto, occultando, e chissà a quale prezzo interiore, il Belli dei sonetti dietro all´altro Belli, poeta in lingua di stampo accademico: una sorta di incendio consumato nel volgere di pochi anni. Al figlio Ciro raccomandò di destinare al braciere le sue carte pericolose. Fu la sua una vita schizofrenica, come ben documenta Marcello Teodonio nella biografia (Laterza, 1993). L´autore di tanti sonetti contro Papa Gregorio, finì col tradurre gli Inni ecclesiastici, brigando per essere ricevuto da Pio IX che gli diede con le sue mani una medaglia d´oro. Per papa Mastai fece il censore, e apprezzò la nuova rivista dei Gesuiti, Civiltà cattolica. Ma se il Belli poeta italiano sarebbe stato prestissimo dimenticato, per l´altro, per il clandestino autore dei sonetti, ci vorrà più o meno un secolo perché con gli studi di Vigolo e di Muscetta, fosse finalmente letto in modo appropriato. Un grandissimo poeta da sottrarre sempre alla tentazione ricorrente di chiuderlo nella stenta tradizione romanesca, inesistente prima di lui e debole anche dopo. Belli in realtà ha inventato e dato forma a Roma e alla sua lingua con una potenza e prepotenza dantesca, che ne fa un unicum, assolutamente remoto, se si cerca un pendant sul piano figurativo, dai fragili bozzetti di Pinelli. Giustamente per Belli si fa il nome di Goya, ma, mi si passi l´anacronismo, io lo vedo come una sorta di Bosch della poesia, attento alla mistura di sacro e profano, al mostruoso e alla illuminazione del particolare. Devastante e attraente ogni volta che lo si legge. Paolo Mauri