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 2012  marzo 10 Sabato calendario

«NON LO TRATTAMMO NOI CON LA MAFIA. FORSE IL PATTO LO FECERO I POLITICI» — I

carabinieri finiti sotto accusa a Palermo per la trattativa con la mafia, e considerati poco credibili dai magistrati di Caltanissetta sulle giustificazioni date ai loro comportamenti, non si limitano a negare contatti illeciti e a rivendicare la propria correttezza. Rilanciano. Dicono che probabilmente qualche patto con Cosa Nostra ci fu, ma siglato da qualcun altro. Lo sostiene il capitano De Donno, indagato dalla Procura palermitana per attentato agli organi costituzionali, insieme al suo ex comandante Mario Mori, al senatore Dell’Utri, all’ex ministro Calogero Mannino e a un manipolo di boss mafiosi; e lo sottoscrive lo stesso generale Mori, imputato per la presunta mancata cattura di Bernardo Provenzano, ipotetica moneta di scambio della trattativa.
Dopo Capaci
Tutto nasce, nelle prospettazioni dell’accusa, dagli incontri tra Mori, De Donno e l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, avvenuti nell’estate del 1992, dopo la strage di Capaci in cui morì Giovanni Falcone e prima di quella di Via D’Amelio che uccise Paolo Borsellino (ma Mori continua a dire che lui vide per la prima volta l’ex sindaco solo ad agosto, e dunque dopo via D’Amelio). Secondo le Procure fu il primo anello della trattativa, alla quale Borsellino — informato non dai carabinieri ma per altra via — era contrario: per questo la sua esecuzione venne anticipata rispetto ai programmi originari dei boss. Per gli investigatori dell’Arma, invece, si trattava solo di una pista investigativa da coltivare per arrivare alla cattura dei grandi latitanti. La trattativa, semmai, la fecero altri.
Ha dichiarato il generale Mori nell’interrogatorio davanti ai pubblici ministeri di Caltanissetta il 13 luglio 2010, dopo che Massimo Ciancimino (così come il pentito Giovanni Brusca) aveva collocato i primi incontri tra gli ufficiali dell’Arma e suo padre Vito mentre Borsellino era ancora vivo: «Massimo Ciancimino ha un interesse a spostare tutto indietro per avere benefici processuali ed economici; Brusca, invece, parla probabilmente di altri incontri, di un’altra "trattativa"... Ciancimino (Vito, ndr) diceva che vi era una causale politica delle stragi, e io questo lo ritengo possibile. Proprio per la matrice politica delle stragi, è evidente che molti soggetti politici avrebbero potuto trattare con la mafia. La nostra iniziativa, invece, era di polizia giudiziaria ed era assolutamente corretta».
Il problema, per gli inquirenti, è capire perché, dell’abboccamento con Ciancimino senior, i carabinieri si erano premurati di informare verso la fine di giugno del ’92 l’allora capo dell’ufficio Affari penali del ministero della Giustizia Liliana Ferraro (che li invitò a parlarne con Borsellino) e non invece lo stesso Borsellino, con il quale Mori stava mettendo in piedi — a suo dire — un programma di lavoro per far ripartire l’indagine su mafia e appalti, in precedenza caduta nel vuoto. Ecco la risposta del generale: «Non parlai dei contatti con Ciancimino a Borsellino perché seppi dell’accettazione della mia presenza ai colloqui (da parte di "don Vito", ndr) solo alla fine di luglio. Prima non vi era ancora nulla di concreto di cui parlare. Anche se Borsellino me l’avesse chiesto, avrei detto che ancora non c’era nulla». I magistrati insistono sulla stranezza di questo comportamento, considerato che i colloqui tra il carabiniere e il magistrato proseguirono fino al 10 luglio ’92. Ma Mori insiste: «Prendo atto che può apparire strano che io non abbia parlato il 10 luglio dei colloqui con Ciancimino al dottor Borsellino. Ribadisco che io ancora non mi ero incontrato con lui e non sapevo se egli avesse accettato: che senso aveva parlarne con Borsellino?».
La rottura
Della ricerca di una pista per arrivare ai latitanti attraverso l’ex sindaco, il generale non fece parola con nessun altro magistrato. Né lasciò alcuna traccia negli archivi del suo ufficio. «Nessuno degli incontri con Ciancimino è stato annotato e riferito, e ciò pur tenuto conto della delicatezza dell’iniziativa, e della inaffidabilità della fonte», spiega Mori. Che poi aggiunge: «Con l’unico organo a cui potevano riferire, la Procura di Palermo, c’era una completa rottura per l’esito delle indagini mafia-appalti». Una sorta di insabbiamento, nel giudizio degli investigatori. Ma Borsellino era il numero due di quella Procura, e per gli inquirenti l’interrogativo resta senza una credibile risposta: perché i carabinieri scelsero di non informarlo?
La convinzione dei magistrati di Caltanissetta è che il giudice amico di Giovanni Falcone non avrebbe accettato l’idea di quella che certamente la mafia aveva intesto come trattativa attraverso cui cercare di ottenere qualche beneficio, e per questo ne fu tenuto all’oscuro. Quando poi lo venne a sapere attraverso la stessa Liliana Ferraro, poteva provare a mettersi d’ostacolo. Per questo Totò Riina, forse insieme a qualche «concorrente esterno» ancora ignoto, ordinò di anticiparne l’eliminazione.
I silenzi sui colloqui
Anche l’allora capitano De Donno — che vide Borsellino il 25 giugno ’92, dopo aver preso i primi contatti con Massimo Ciancimino e nello stesso periodo in cui ne parlò alla Ferraro — non rivelò al giudice quella iniziativa. Affrontò solo il tema mafia-appalti. «I nostri contatti tendevano alla ricerca, ancora in fase embrionale, di una fonte qualificata in grado di darci spunti di indagine in una situazione drammatica... — ha riferito nell’interrogatorio del 5 luglio 2010 —. Non ritenni utile inserire troppa carne al fuoco aggiungendo le altre nostre iniziative del tempo, tra queste i colloqui preliminari con il Ciancimino». Subito dopo assicura: «Certamente gliene avrei parlato nel successivo incontro, del resto ci lasciammo con l’accordo che ci saremmo rivisti a breve per analizzare con maggiore specificità la situazione delle indagini su mafia-appalti... Prendo atto che certamente il tema Ciancimino atteneva alla vicenda mafia-appalti, ma confermo di non averne parlato, con l’intenzione di farlo in un successivo incontro».
Come Mori, a proposito di ipotetici patti tra mafia e istituzioni, De Donno punta il dito su altri soggetti: «Forse qualcun altro, all’interno dello Stato, stava trattando... A mio avviso, se qualcuno ha instaurato un dialogo, era qualcuno che poteva garantire di poter prendere scelte. Dunque, una persona dotata di un potere che noi, di certo, non avevamo. Penso a gruppi politici o lobby rappresentative di comuni interessi... In definitiva mi sono convinto che, come diceva Ciancimino, la mafia è servita per gestire fatti politici, cioè è stata usata, ha fatto da manovalanza per fini politici».
Per i pubblici ministeri di Caltanissetta che hanno riaperto l’indagine sulla strage di via D’Amelio «non convince la ostinata negazione di una trattativa» da parte dei carabinieri, e concludono: «È anche probabile che altra trattativa fosse portata avanti a un livello più alto. Ma le varie trattative si intersecano indistricabilmente, portando la loro ombra ancora oggi su quei tragici eventi dei primi anni Novanta».
Giovanni Bianconi